Satira e decadenza
La satira nasce da un’impotenza, o almeno così inizio a credere. In quella frattura che si genera tra l’ideale e la realtà: si inizia a dissacrare per evidenziare l’assurdità del ridicolo al potere e si finisce col giungere alla conclusione che ogni potere ha la narcisistica tendenza a sfociare nel ridicolo. Nonostante tutto però, mai la satira si arrende al disincanto, al massimo lo sfrutta.
Nelle dittature la cosa è seria, ma è anche più semplice. La satira si mette in gioco e rischia davvero ma il peggio è lì, in bella vista, non fa nulla per nascondersi, anzi ostenta: nega, vieta, censura, isola, uccide, e noi da lontano, nelle nostre mediocri dimensioni, cominciamo addirittura a credere che il peggio ha “almeno” generato ordine. Lo facciamo con la Russia di Putin e tra un po’ – appena dimenticheremo in fretta le purghe turche – lo faremo con Erdoğan, casomai srotolando un bel tappeto rosso per un suo “conveniente” ingresso in Europa. Una sana propensione al caos potrebbe aiutarci a immaginare la polvere sotto il tappeto, ma preferiamo credere che “un sano ordine”, anche se ottenuto col pugno di ferro e a prezzo di vite umane e libertà, sia preferibile alle “mollezze” generate dalla “decadenza delle democrazie”.
Fin qui nulla di nuovo, in fondo i totalitarismi sono nati così: la classe dirigente lontana e inadeguata, chiusa nei suoi privilegi ha il sapore del declino, dello stantio; va a male ciclicamente e da sempre. Quindi meglio volgere lo sguardo alzando gli occhi da posizione prona all’uomo forte, stando però ben attenti a non sbirciare tra gli scheletri del suo armadio. Ora meglio non pensarci. Sarà la storia a darci torto scoperchiando tutto. Meglio un conveniente, postumo e contrito “mea culpa” che complicarsi l’esistenza per la difesa delle libertà, soprattutto quando iniziano a essere fuori moda.
La satira nelle “cosiddette” democrazie invece è libera, così libera che può scegliersi tranquillamente il suo padrone. Da maliziosa e irriverente, pian pianino e grazie alle moine e i favori di questo o quel potentume, tende a diventare tendenziosa e pu*tana, ma ci sta tutto.
Facile dire che se Berlusconi pisciasse come Macron ride sarebbe un uomo nuovo e tornerebbe in campo, o che in fondo il primo sostenitore dell’immigrazione clandestina è lo stesso Salvini; quell’essere non potrebbe mai basare un programma politico degno di questo nome, può solo far leva sul malcontento prospettando catastrofi future. Non può far altro che questo: mangiare speculando sulle disgrazie altrui e sperare che la cucina non chiuda mai.
Siamo effettivamente poveri: i grandi uomini stanno scomparendo, gli ideali – ci hanno detto – non contano più, e non ci resta che correre appresso alle miserie che ci propinano ogni giorno facendole sembrare questioni di vitale importanza; ma si badi: ogni argomento deve assumere le fattezze di un tormentone per un massimo di tre giorni, poi – cascasse il mondo – va sostituito. Una decina di giorni fa la scarcerazione di Riina, poi lo Ius Soli, ieri il caso di informatici analfabeti sul sito del ministero della pubblica istruzione e così via… ogni tre giorni dilaga qualcosa che ci fa saltare di palo in frasca senza che ci sia dato il tempo di approfondire, conoscere, sapere davvero cosa sta accadendo.
E così anche la satira – da sempre in fertile disgrazia – si trova suo malgrado a fare il contrario di quello che per sua natura ha sempre fatto: criticare con occhio vigile e dissacrante le mode, i costumi, gli atteggiamenti, la società, il potere. Per stare appresso all’argomento di distrazione di massa quotidiano perde di vista l’essenziale, la sua irriverente vocazione all’assoluta imparzialità nella storia. Il re è già nudo, non fa più notizia, meglio sfamarsi col pettegolezzo.
Giovenale e Marziale restano sempre vivi, Ben Jonson ha scritto e ancora scrive “The Isle of Dogs”, mentre oggi ci accontentiamo di qualche strafalcione sintattico e, se ci va di lusso, di quale perniciosa smutandata! Sì, siamo fortunosamente poveri, che opportunità sprecata!