Sartoria sociale. Il rammendo come atto politico e forma di emancipazione

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Rammendare può essere un atto politico? Cucire e rammendare i propri vestiti è di per sé una presa di consapevolezza di ciò che si possiede. Un modo di aver cura del mondo e dell’ambiente. L’arte della sartoria sociale negli anni sta diventando una modalità di emancipazione. Donne immigrate, donne vittime di violenza, donne, come sostantivo: tutte possono conquistarsi l’indipendenza economica cucendo.

La sartoria sociale permette a moltissime donne di sostenersi e di poter nuovamente lavorare e mantenersi. È uno strumento che guarda al passato per sostenere il presente e assicurare un futuro. Più che uno strumento è un’arte. Inoltre, quando affidarsi alle sarte diventa una scelta di chi è maggiormente privilegiato, si trasforma in un atto politico. Una presa di posizione a favore dell’ambiente e dei diritti fondamentali.

Il ’68 era un principiante in confronto alla rivoluzione del cucito

Le rivoluzioni moderne spesso sono più “silenziose” di quelle passate. Questa per esempio, se la ascolti, fa il un rumore di un ticchettio continuo. Oppure, ancora, puoi sentire il suono dell’ago quando buca una stoffa. A volte sottile, a volte più sordo. Le rivoluzioni moderne hanno però un grande pregio: sono capaci di sostituire qualcosa a quello che si sta distruggendo. Nessuno può restare orfano. Il motivo è che sono movimenti di riappropriazione del vissuto comune.

Così è cucirsi i vestiti, oppure portarli a rammendare. Una sostituzione. Si rinnega una certa economia lineare per abbracciare quella circolare. I vestiti si rigenerano, la stoffa si ricicla, una maglietta diventa una bandana e un paio di jeans troppo corti si tramutano in un paio di shorts. Certo, c’è bisogno di pazienza. Magari «più di 80 ore di lavoro intensivo». Magari «mille prove, fallimenti, anni di sacrifici» (come ricorda Veronica, la sarta del profilo thesewcialist).

Il punto non è tanto quello di sentirsi ripagati. Si tratta più semplicemente di un cambio di mentalità. Certo, I Love Shopping ci insegna che l’acquisto compulsivo non fa bene neanche alla salute. Sicuramente è più soddisfacente scegliere cosa mettersi addosso che non riempire a forza un armadio straripante.

A parte i problemi dell’anima, cucire e ricucire sono azioni sostenibili e sociali, per l’appunto, altruiste ed egoiste allo stesso tempo. Qualche dato: la maglietta che portate proprio adesso ha impiegato 2700 litri d’acqua per acquisire quella forma. Per 1kg di tessuto di litri ce ne vogliono 11.000 (interessante scoprirlo giusto qualche giorno dopo la giornata internazionale dell’acqua, no?). E, come se non fosse abbastanza, l’industria della moda produce 1,2 milioni di tonnellate di gas serra.

E dov’è la parte sociale? Direte voi.

La sartoria sociale, il cucito femminista

Il rammendo, il cucito sono arti che ci portano indietro nel tempo. Sono un modo significativo per guardare alle nostre tradizioni senza restarne intrappolati.

Il carattere femminista sta proprio nel prendere un mestiere antico, da cui in tante abbiamo negli anni cercato di emanciparci, e ridonarlo alle donne. Le donne vittime di violenza. Quelle che sono rimaste sole. Quelle senza lavoro, abbattute dalla società moderna. Le immigrate. Le donne, tutte, che devono ancora conquistarsi i diritti.

Proprio in questo è il cuore sociale. Cucire è un lavoro, permette di guadagnare. E badate, non si tratta di una questione gretta, di sporco denaro. Si tratta di autonomia lavorativa, economica. Si tratta, nel sistema di cose corrente, di potersi auto-determinare. Le donne che sembra abbiano perso tutto, usano proprio l’arma che in passato ha rappresentato la loro subalternità per emergere. È in atto il processo di riappropriazione del proprio destino (certo, sempre riferendosi ottimisticamente a un futuro ancora lontano, valido per ogni donna sul pianeta).




In questo contesto, sono tantissime le realtà che si impegnano per garantire questa possibilità a tutte. Tra queste, una delle mie preferite è la Cooperative Soleinsieme. II loro obiettivo è rendere gli individui protagonisti della crescita collettiva. Inoltre, all’interno della sartoria sociale, è anche presente uno sportello anti-violenza. La cooperativa reintegra le donne che sono state private dei loro diritti.

Un’altra, inclusiva, sartoria sociale è Rinate in Italia. Le donne invisibili si trasformano in sarte. Le sarte cuciono il destino sociale delle altre donne. Questo è chiaro se guardiamo una delle loro ultime opere: pantaloni che si allargano e si stringono. Basta spostare un bottone.

E quel bottone aiuta a sentirsi bene con il proprio corpo, a non essere costrette a regime semplicemente per non doversi comprare altri abiti. È un modo per restare sane. Una forte e solida rivoluzione “silenziosa”.

Antonia Ferri

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