Sanzionare la Cina su Taiwan costerebbe all’economia globale 3000 miliardi di dollari

Sanzionare la Cina su Taiwan costerebbe 3000 miliardi di dollari

Sanzionare la Cina per l’invasione di Taiwan, costerebbe all’economia globale 3000 miliardi di dollari. Il dato è al centro di una ricerca congiunta pubblicata dall’ Atlantic Council e dal Rhodium Group. Secondo lo studio, che muove da un confronto in corso tra policymaker e aziende dei paesi del G7, nel prossimo futuro i Paesi occidentali dovranno investire su forme di deterrenza alternative rispetto alle sanzioni economiche se vogliono mantenere la pace tra Pechino e Taipei.

In caso di crisi tra Pechino e Taipei, sanzionare la Cina su Taiwan costerebbe all’economia globale qualcosa come 3000 miliardi di dollari, cifra equivalente al pil del Regno Unito nel 2022. Il dato è al centro della ricerca congiunta “Sanctioning China in a Taiwan Crisis, Scenarios and Risks”,  pubblicata dall’Atlantic Council e dal Rhodium Group

Il rapporto del think tank con sede a Washington ipotizza che – qualora le relazioni tra la Cina e Taiwan dovessero precipitare rovinosamente – i Paesi membri del G7 propenderebbero con tutta probabilità per sanzioni finanziarie e controlli sulle esportazioni nei confronti di Pechino come è accaduto con la Russia dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.

Secondo lo studio – che ha analizzato la portata e la distribuzione delle sanzioni inflitte dai Paesi occidentali ai principali settori strategici dell’economia cinese (mercati finanziari, industrie che hanno legami con le forze armate, individui e società legate a leader politici e militari) – queste contromisure non sarebbero, però, sufficienti a piegare la seconda potenza del pianeta. Per i ricercatori dell’Atlantic Council e del Rhodium Group, le sanzioni economiche sono, infatti, degli strumenti complementari ma non sostitutivi per il mantenimento della pace nello stretto di Taiwan.

Interessi e disaccordi tra i Paesi del G7 nella crisi di Taiwan

Le crescenti tensioni degli ultimi mesi nello Stretto di Taiwan e la risposta economica rapida e coordinata dei Paesi del G7 all’invasione russa dell’Ucraina hanno sollevato nella comunità internazionale dubbi e criticità circa il reale funzionamento di simili contromisure nei confronti di Pechino. Nello specifico, il rapporto stilato dall’Atlantic Council  ha esaminato la gamma di contromisure economiche plausibili che i leader del G7 potrebbero decidere di utilizzare nel caso di escalation nello stretto di Taiwan, prima di passare ad una situazione di guerra vera e propria.

Nello scenario ipotizzato dallo studio, la prima reazione dei Paesi Occidentali sarebbe quella di ridurre il più possibile i danni collaterali provocati dalle sanzioni economiche, prendendo di mira le industrie e le entità cinesi che dipendono fortemente e in modo asimmetrico da input, mercati o tecnologie del G7. Secondo il rapporto, in questa prima fase, a giocare un ruolo chiave sarebbe il coordinamento costante tra funzionari statunitensi ed europei, consolidatosi dopo l’invasione russa dell’Ucraina.


Tuttavia, secondo i ricercatori che hanno condotto lo studio, in una crisi tra Pechino e Taipei difficilmente i Paesi del G7 riuscirebbero a coordinarsi in modo rapido com’è avvenuto in occasione delle sanzioni contro Mosca. I costi elevati e l’incertezza sulle intenzioni ultime di Pechino renderebbero l’allineamento delle parti molto più complicato.

Per i Paesi dell’Unione europea, ad esempio, sarebbe molto più difficile rinunciare all’interscambio commerciale con la Cina. Inoltre, è bene ricordare che mentre per Washington l’isola di Taiwan rappresenta una questione di sicurezza nazionale, per gli altri membri del G7 non ha nessuna rilevanza strategica. La percezione della Cina nell’opinione pubblica europea è diversa rispetto a quella americana. Secondo gli ultimi dati del Pew Research Center, l’83% degli statunitensi  ha un’idea fortemente  “negativa” del  dragone mentre il 62% degli europei vorrebbe rimanere neurale in caso di conflitto tra Pechino e Washington su Taiwan.

Gli scenari sanzionatori e i relativi costi

Il rapporto ha esaminato tre diversi tipi di sanzioni che i Paesi del G7 potrebbero applicare alla Cina e che andrebbero a colpire rispettivamente il sistema finanziario, gli individui ed entità legate all’economia nazionale  e i settori industriali. Le valutazioni fatte tengono conto del valore economico Cina-G7 e del rapporto tra rischi e benefici per l’economia globale, relativo all’utilizzazione di ogni singolo strumento sanzionatorio.

Contromisure sul sistema finanziario

In un possibile scenario di crisi tra Pechino e Washington a causa di Taiwan, gli Usa e i loro alleati occidentali potrebbero prendere in considerazione l’implementazione di contromisure economiche mirate al sistema finanziario cinese. Questo tipo di sanzioni, che si sono rivelate un pilastro centrale nel sistema sanzionatorio del G7 nei confronti del Cremlino, prevedono azioni mirate in grado di bloccare le transazioni delle banche cinesi,  congelandone i beni e negando loro l’accesso all’infrastruttura globale dei pagamenti in dollari.

Secondo lo studio, anche se la Cina ha legami relativamente limitati con il settore finanziario esterno, resta comunque la seconda economia del pianeta con il più grande volume di scambi internazionali di merci. Questo significa che le sanzioni finanziarie provocherebbero ampie ripercussioni sull’economia globale e sul sistema bancario cinese, anche alla luce del ruolo giocato da Pechino quale gigante commerciale impegnato nella facilitazione dei flussi finanziari transfrontalieri.

Infatti, quando le società cinesi fanno affari all’estero, in genere utilizzano la valuta straniera. Per facilitare i pagamenti transfrontalieri, le banche cinesi mantengono conti di corrispondenza presso banche globali, che a loro volta addebitano o accreditano pagamenti in dollari e euro sui conti corrispondenti cinesi per conto del cliente o fornitore straniero. E proprio il mantenimento di questi conti corrispondenti è una parte fondamentale dell’infrastruttura finanziaria alla base del commercio globale.

Tuttavia,  negli ultimi anni, il Ministero delle Finanze cinese e la Banca popolare cinese (PBOC) hanno istituito diverse piattaforme che consentono di eseguire transazioni transfrontaliere riducendo la dipendenza dai sistemi di pagamento basati sul dollaro.  E visto il crescente interesse da parte dei Paesi del Global South per i sistemi di pagamento alternativi al dollaro, i ricercatori dell’Atlantic Council non escludono che nei prossimi cinque anni ci saranno sempre più sistemi cinesi in grado di aggirare questo tipo di sanzioni.

Contromisure economiche rivolte a individui ed entità associate alla leadership di PCC e PLA

Dopo aver valutato lo strumento delle sanzioni finanziarie occidentali sull’economia cinese, il rapporto prende in esame la possibilità di implementare sanzioni che vadano a colpire le leadership politiche e militari, associate a governi avversari, nonché eventuali organizzazioni paramilitari e terroristiche. Anche questo secondo strumento sanzionatorio è ben consolidato ed è stato ampiamente utilizzato dai paesi del G7 e dalle Nazioni Unite nella strategia messa a punto per piegare la Russia di Vladimir Putin. 

Questo tipo di contromisure cerca di spingere gli individui, le organizzazioni e i governi presi di mira a modificare le loro politiche ostili, limitando le loro capacità di reperire, utilizzare e spostare fondi all’estero. Nel caso di una crisi con Taiwan, lo studio ipotizza che i paesi del G7 potrebbero imporre sanzioni finanziarie mirate al governo cinese e ai funzionari militari, colpendo trasversalmente anche altre élite politicamente collegate per aumentare la pressione economica sul segretario generale Xi Jinping e sui suoi stretti alleati.

Secondo il rapporto, le sanzioni contro i funzionari cinesi potrebbero procedere in più fasi. In un primo momenti, ci sarebbero una serie di azioni mirate a un insieme ristretto  di funzionari di partito, governo e militari con collegamenti diretti con una crisi di Taiwan. In un secondo momento, invece, le contromisure andrebbero a colpire  un cerchio sempre più ampio di individui che comprende  élite imprenditoriali politicamente collegate al governo cinese.

Secondo il rapporto questo secondo tipo di sanzioni, concentrate sulle élite imprenditoriali, potrebbero bloccare effettivamente  maggiori capitali cinesi all’estero, ma non ci sono evidenze che tutto ciò riesca ad indebolire la leadership politica interna. Gli imprenditori privati cinesi considerano già l’aggressione verso Taiwan come un danno diretto verso i propri interessi e perciò negli ultimi tempi hanno iniziato a diminuire l’influenza politica, dopo anni di centralizzazione del potere sotto Xi, allentando i lacci dagli apparati del partito.

Contromisure economiche rivolte ai settori industriali cinesi

Infine, il rapporto prende in considerazione la possibilità che i leader del G7 decidano  di intervenire implementando nuovi e più drastici controlli sulle esportazioni. Lo studio ipotizza il ricorso da parte dei paesi occidentali di nuove sanzioni e  restrizioni nei confronti di quelle società e industrie cinesi maggiormente legate al settore della difesa e delle nuove tecnologie.

Questo tipo di contromisure ha avuto un ruolo di primo piano nel programma di sanzioni sviluppato dai membri del G7 contro la Russia, dove con una serie di misure commerciali e di investimento imposte a società e industrie legate all’estrazione mineraria, all’elettronica, all’aviazione e ad altri settori, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno introdotto controlli più rigorosi sulle esportazioni, focalizzandosi su alcune apparecchiature industriali ed elettriche. Nel corso di quest’anno e mezzo di guerra, il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha aggiunto nuove  società legate all’esercito russo alla Entity List (lista di controllo delle esportazioni). 

Tuttavia, nel caso specifico della Cina, lo studio del think tank americano evidenzia come le aziende di Pechino che hanno legami con il PLA (le forze armate della Repubblica popolare cinese) e altre società specifiche che utilizzano tecnologie anche per scopi militari, stiano già affrontando sanzioni e controlli sulle esportazioni, imposte dagli Usa. Ciò significa, sostanzialmente, che nel contesto di una crisi con Taiwan, i paesi del G7 potrebbero prendere di mira un ulteriore gruppo ristretto di industrie cinesi, i cui legami con i settori della difesa sono di vitale importanza per lo sviluppo delle tecnologie militari che permettono a Pechino di alimentare le proprie forze armate.

Tra queste industrie sono già presenti nella Entity list degli Usa quelle legate ai prodotti chimici, ai metalli, all’elettronica, all’aviazione e alla costruzione navale. Secondo lo studio, in uno scenario estremo, se i paesi del G7 imponessero severe restrizioni alle esportazioni sul commercio con la Cina relativamente a questi settori chiave dell’economia, le conseguenze sarebbero sostanziali ma ovviamente non provocherebbero danni soltanto a Pechino.

I controlli sulle esportazioni imposti alla Cina e il relativo blocco sui principali produttori aerospaziali nazionali, potrebbero esporre ad un  rischio enorme, quantificabile in decine di miliardi di dollari, il commercio internazionale di beni aerospaziali. “Mentre la Cina affronterebbe sfide sostanziali nel raggiungere il suo obiettivo di sviluppare una forte industria aeronautica commerciale nazionale, le società aerospaziali straniere perderebbero miliardi di dollari in esportazioni e vendite in Cina e rischierebbero di vedere miliardi di dollari in investimenti diretti persi”, conclude lo studio.

Le raccomandazioni da utilizzare in futuro nell’elaborazione di nuove sanzioni contro Pechino

E mentre i Paesi del G7, sempre più preoccupati dallo choc che provocherebbe all’economia globale una crisi definitiva tra Taiwan e Pechino,  continuano ad esplorare la gamma di opzioni a loro disposizione per rispondere alle azioni cinesi, dal rapporto dell’Atlantic Council  emergono una serie di raccomandazioni riguardanti l’utilizzo responsabile delle sanzioni economiche nei confronti della seconda economia del pianeta.

Innanzitutto, i partner del G7  e Taiwan dovrebbero aumentare la loro cooperazione in vista di una possibile crisi tra Taipei e Pechino; crisi che il rapporto non identifica necessariamente con un’invasione militare ma anche con un blocco navale o un attacco hacker su vasta scala alle infrastrutture strategiche di Taiwan.

In secondo luogo, i Paesi del G7 dovrebbero concordare linee rosse e contromisure appropriate, monitorando le tendenze emergenti, i legami finanziari e le vulnerabilità condivise con Pechino. Così agendo, i governi dei sette grandi potrebbero coordinarsi più efficacemente per contrastare la minaccia cinese su Taiwan. Nello specifico, il rapporto auspica la creazione di tavole rotonde e consultazioni con le capitali che condividono lo stesso approccio sulla questione “Asia-Pacifico”, facilitandone così le decisioni multilaterali.

Infine,  sarà importante comprendere al meglio le asimmetrie economiche tra la Cina e i Paesi del G7 investendo contestualmente in nuove forme di deterrenza per il futuro. Secondo il rapporto, le contromisure economiche dovrebbero essere considerate come parte di una strategia multilaterale e di governo in quanto hanno costi e limitazioni che possono rendere queste ultime meno efficaci se impiegate da sole. Se, invece, saranno abbinate ai tradizionali strumenti di deterrenza sia in ambito militare che diplomatico, potrebbero rivelarsi molto più efficaci e temute dal “nemico”. Infatti, una deterrenza efficace deve fondarsi su  minacce credibili, a loro volta accompagnate da garanzie credibili. Pechino sa benissimo che i Paesi del G7 non possono fare affidamento esclusivo sullo strumento delle sanzioni economiche poiché ciò vorrebbe dire chiudere la porta in faccia alla seconda potenza economica del pianeta.

Secondo il rapporto, il G7 dovrebbe finalmente chiarire a Pechino che non ha alcun desiderio di cambiare l’attuale situazione nello stretto di Taiwan e che “gli sforzi per mantenere lo status quo e sostenere i tradizionali strumenti diplomatici, militari ed economici per garantire la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan dovrebbero essere la priorità”.

Tommaso Di Caprio

 

 

 

 

 

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