Sanremo dimostra in tutta la sua ostinazione che la televisione italiana ha un grosso problema con la rappresentanza e la rappresentazione delle donne. E Sanremo non può non essere definito il riflesso dei media tradizionali, visto che si tratta della produzione di punta della televisione pubblica del nostro Paese, che nella settimana del Festival investe più soldi, più tempo e più energie.
Occorre fare una riflessione seria. E vi avviso: questa riflessione riguarderà il monologo della Palombelli, l’assenza di direttrici d’orchestra lì a dirigere, le vallette e i fiori come contentino. E se pensate che siano stupidaggini, beh, ecco: no. È solo la punta dell’iceberg.
Una premessa
Facciamo un passo indietro: il Festival di Sanremo è arrivato alla sua 71° edizione. Non lo ha fermato nulla, nemmeno la pandemia. Si è modificato, si è allungato, si è accorciato, si è stravolto in grandi e piccole cose. Nel 1990 si è pure spostato dal teatro Ariston al Palafiori. Solo una cosa non è mai cambiata: il suo problema con le donne. Come riporta un articolo di Giulia Sodi su Rolling Stone, in 71 edizioni, ci sono state 0 maestre d’orchestra, intese come direttrici generali dell’ensemble di ogni annata. C’è stata una sola regista, Simonetta Tavanti, nell’edizione del 1998. Le scenografe sono state solamente 4 nelle ultime 45 edizioni. Le direttrici della fotografia sono state 0 su 71 edizioni. Solo una donna, negli ultimi 71 anni, è stata direttrice Rai e risponde al nome di Lorenza Lei, tra il 2011 e il 2012.
Non solo Sanremo
Certo, questo non è colpa di Sanremo in toto: è il riflesso di una società che, per assegnare ruoli e posizioni, non attinge dal bacino dei professionisti e da quello delle professioniste allo stesso modo. Non lo faceva assolutamente, per dogma, nelle prime edizioni e si può dire che non lo faccia nemmeno ora. Oppure, in applicazione dello stesso dogma, ci sono meno donne che svolgono effettivamente quella professione, perché disincentivate a monte prima di intraprendere una certa carriera.
Presentatori e presentatrici
In un’altra prospettiva, però, si può parlare di presentatrici e presentatori. Alla pagina Wikipedia che elenca presentatori e presentatrici Rai, vi è un elenco di 181 nomi. Le punte di diamante dei palchi Rai si mescolano con persone che hanno fatto parte solo occasionalmente delle trasmissioni e questo vale sia per gli uomini sia per le donne. 85 di questi 181 nomi sono donne. Si può dire che non ci sia una parità formale, ma di fatto si può pensare che la rappresentanza femminile sia accettabile. Solo 6, però, sono state le donne a trainare il Festival dal 29 gennaio del 1951 fino a oggi.
Sì, ma non direttrici artistiche
E non è tutto. Come fa notare la Sodi, uno strano fenomeno si verifica quando tocca alle conduttrici. Nel 1994 Pippo Baudo ha introdotto la tradizione di essere al contempo presentatore e direttore artistico. Dal 2002, poi, i conduttori che si sono avvicendati nella staffetta sul palco hanno mantenuto questa prassi: chi presenta è anche colui che cura la proposta culturale. Non negli anni però in cui a presentare c’erano le donne: la direzione artistica, in quel caso, passa a un uomo. Evidentemente Raffaella Carrà, Simona Ventura e Antonella Clerici, in quanto portatrici sane di organi femminili, avevano bisogno che fossero degli uomini a scegliere, virilmente, le canzoni.
Autori e autrici di Sanremo
Ma non finisce qui. Tra il massiccio gruppo di autori di quest’anno, che secondo i calcoli di Rolling Stone ammontano a 205, ci sono solo 15 donne. A questo punto dell’articolo vorrei dire che i risultati poi, sul palco, si vedono, ma essendo io sostenitrice del politically correct, cercherò di argomentare meglio questo mio lapsus.
Il problema della valletta
Siamo in un momento storico in cui siamo costantemente bersagliati dalle questioni relative alle pari opportunità. Tra i 205 autori, quindi, non è venuto davvero in mente a nessuno che la questione della valletta, forse, sia un po’ retrograda? Che sia un contentino come per dire alle femministe rissose e belligeranti che le donne sul palco c’erano?
E non basta autoassolversi con il monologo sulla condizione femminile che ogni anno viene propinato con risultati altalenanti: se quello di Rula Jebreal aveva suscitato grande entusiasmo, quello dello scorso anno di Diletta Leotta e quello di ieri sera di Barbara Palombelli hanno destato più di una perplessità. Confusi, stereotipati, non curati nel contenuto: foglie di fico per dire “Donne, avete avuto il vostro momento”.
Grazie dei fior
Esattamente come con la questione fiori, che ogni anno attanaglia i presentatori, solo perché sindaci e assessori di Sanremo li vorrebbero più inquadrati. I fiori dati sempre e solo alle donne. Poi “No, aspetta, diamoli anche agli uomini, che i social si indignano”, sghignazza Fiorello, non più sotto i baffi. Ora, se si vuole derubricare la polemica sui fiori a “sonora stupidaggine”, prego, fate pure. Poi, però, un giorno dovremo parlare di come la mascolinità tossica del “Uh, gli uomini non prendono fiori” e retaggi patriarcali vadano, casualmente, a braccetto. Cosa rispondereste a un bambino che vi chiede: “Perché i fiori solo alle donne?“. Perché con le donne bisogna essere gentili? E allora lui ribatterebbe: “E con gli uomini non bisogna essere gentili?”. Certo, anche, ma agli uomini non si danno i fiori. “E perché?”. Perché è una forma di compensazione travestita da cavalleria, dovreste rispondere voi.
Il “direttore” Beatrice Venezi
E per la sagra delle occasioni perse, non può mancare un accenno a Beatrice Venezi, 31 enne “direttore” d’orchestra, come ha detto di volersi definire. “Direttore”, a detta sua, “è il nome della professione ed è quello per cui io ho studiato”. Applausi scroscianti da Salvini e Pillon, ieri, alla luce di questa dichiarazione antiboldriniana e, se mi è permesso, anche antigrammaticale. Sarebbe stata un’occasione importante per le ragazze, le bambine e le donne e soprattutto gli uomini che hanno visto lei a Sanremo pensare che “direttrice” non possa essere solo quella della scuola materna, ma che una donna che dirige un’orchestra sia da normalizzare, anche attraverso il vocabolario.
Nella postilla che Amadeus ha fatto, ha specificato che la stessa Venezi ha chiesto di essere definita “direttore”, così come io avrò tutto il diritto di definire un mio caro amico “ostetrica”, perché si sa, si tratta di una professione che per anni è stata femminile. Quello che il “direttore” Venezi sembra aver interiorizzato è il maschilismo più subdolo: evidentemente, nel chiamarla “direttore” non si sminuisce il suo ruolo, mentre “direttrice” toglie la carica virile e dunque il prestigio del ruolo che il maschile si porta dietro.
Beatrice Venezi era sul palco di Sanremo come mosca bianca, come rappresentante di una categoria quasi inesistente: le direttrici d’orchestra. Al posto di spianare la strada alle altre, la Venezi con questa affermazione sembra voler conservare il suo ruolo di donna che ce l’ha fatta in un mondo di uomini. E non è questa un’interiorizzazione del maschilismo? Casualmente, Beatrice Venezi era l’unica donna tra i direttori d’orchestra presenti a Sanremo. Il fatto che, però, lei non fosse lì a dirigere ma a fare da presentatrice ornamentale forse è sintomatico.
2021 e il corpo di ballo
Viene poi il momento del corpo di ballo tutto al femminile in mutande, come se fosse la Mediaset del Bagaglino. Per carità, a disagio con le donne in mutande accanto a presentatori in giacca e cravatta lo ero anche nei primi anni Duemila guardando Passaparola con il rassicurante volto di Gerry Scotti. Forse, però, nel 2021 avere un corpo di ballo non esclusivamente femminile potrebbe essere un’idea. Sulla nudità possiamo discuterne.
Le donne nei media
Il problema, però, non è solo Sanremo. È la rappresentazione e la rappresentanza delle donne sui media. In televisione e nei talk show, le donne rappresentano il 32% delle presenze sul piccolo schermo. E quando ci sono parlano molto meno. In compenso, però, come riportano le statistiche dell’Istituto Geena Davis, sono molto più svestite. È interessante la valutazione empirica che è stata portata avanti dall’ossevatorio Le donne contano le donne, nello scorso giugno. Si è presa in considerazione la settimana dall’1 al 6 giugno 2020 e, guardando gli invitati ai vari programmi in onda, sono emersi dati interessanti. A Otto e mezzo, 12 donne e 21 uomini. Nel salotto di Non è l’Arena gli uomini che intervengono sono 21 uomini e le donne 9. A Carta Bianca 23 a 6 per gli uomini. Nello studio di Diritto e Rovescio, 35 a 17, sempre per gli uomini. A Piazzapulita 29 a 16. Persino all’avveniristico Propaganda Live, 13 sono gli uomini e 6 le donne. Un altro dato: nei 132 minuti di trasmissione di Petrolio, le donne hanno parlato 14 minuti: il 10,7% del tempo.
Il problema del benaltrismo
Se non è un problema di fiori, di vallette, di corpi di ballo, di professioni al femminile o al maschile, di monologhi raffazzonati, perché derubricati arbitrariamente come stupidaggini o frivolezze, allora facciamo che si rifletta sul problema della quantità. Lo scrive una che ci ha messo anni a digerire il concetto delle quote rosa e che poi, a un certo punto, ha capito che dove ci sono degli ostacoli sostanziali, il maschilismo si interiorizza.
Niente è frivolo se ci permette di riflettere sul senso dei gesti, nemmeno i fiori di Sanremo, nemmeno la polemica strumentale sul “direttore” o “direttrice“. Se ancora abbiamo difficoltà a riconoscere il femminile di certi vocaboli o addirittura se ci sembra “cacofonico”, vuol dire che c’è della strada da fare. E non solo nella grammatica.
E buon 8 marzo.
Elisa Ghidini