Samba: «Alice… io non so neanche più come mi chiamo… ho paura che un giorno dimenticherò il mio nome…»
Alice: «Io non lo dimenticherò… e se un giorno avessi voglia di farlo… grida il tuo nome così la gente penserà che hai voglia di ballare…»
Come può una persona scordare il proprio nome? Il nostro nome non ci rende solo identificabili dagli altri, ma ci ricorda la nostra e altrui storia e vissuto. Senza nome ci sentiremmo gocce di un Oceano infinito. Perdere il proprio nome, nasconderlo o cancellarlo è come eclissare il proprio sè, perdere la nostra individualità. Il nome ci identifica come individuo, in relazione a coloro che ci riconoscono quel nome e il diritto a portarlo e mantenerlo nel tempo, un “nome proprio”.
Questo è Samba, un nome che racchiude in se molti significati: un ragazzo senegalese, un ballo e un film. Attraverso la storia incrociata di quattro personaggi che vivono a Parigi, il regista ci parla di immigrazione: Samba è un clandestino senegalese; Alice è una francese che si è data al volontariato dopo essere caduta in depressione per il troppo lavoro; Manue è una avvocatessa francese; Wilson (Walid) è un ragazzo algerino che si spaccia per brasiliano, perché così è più semplice essere accettato e ben voluto dalla comunità, ma soprattutto è più facile trovare un lavoro.
Il regista ha creato un accurato découpage di rapporti umani. Il permesso di soggiorno di Samba e i problemi esistenziali dei personaggi secondari funge da filo conduttore di questo racconto, che ha per oggetto la ricostruzione, attraverso i rapporti umani, dell’identità individuale e collettiva di questi personaggi. Rapporti che nascono freddi e distaccati: la dogana di un aeroporto – una scrivania – gli assistenti all’immigrazione. Rapporti che cresceranno fino a sbocciare in relazioni intime: le case dei personaggi – gli incontri in città volontari o causali –Alice e Samba.
Dopo dieci anni di lavoro regolare e vita a Parigi a Samba scade il permesso di soggiorno e deve fare richiesta per riaverlo, riinizia qui la sua odissea. Storia che rivive ogni immigrato che decide di venire in Europa. Storie come quella di Samba non si vedono solo nei film o si leggono nei libri, ma possono essere ascoltate dai ragazzi immigrati che affrontano ogni giorno le medesime difficoltà di questo personaggio. Ho visto con i miei occhi alcune di queste Storie, e ho capito cosa significa richiedere un permesso di soggiorno: un’ansia ed attesa quasi infinita.
Vi racconterò un fatto che ho vissuto con un amico che doveva richiedere il permesso di soggiorno. Questo ragazzo che parla bene l’inglese e lo spagnolo ma meno l’italiano aveva bisogno di un interprete, perché c’erano state delle incomprensioni linguistiche in questura, decisi quindi di aiutarlo:
(Io) A che ora ci vediamo?
(Lui) Alle sei perché alle sette dobbiamo essere lì. Ed è inutile arrivare dopo, perché sono sempre moltissimi a richiedere il permesso e l’ufficio rimane aperto solo la mattina.
La zona della questura non è ben fornita di mezzi pubblici a quell’ora, e dopo aver preso l’autobus si deve camminare una quindicina di minuti a piedi. Quando finalmente arrivi a destinazione, ti accorgi che nonostante sono solo le sette del mattino, c’è già tanta gente tra cui molte donne incinte con bambini e anziani, tutti ad aspettare all’aperto senza un posto dove sedersi o ripararsi. Intuisci così che dovrai fare una lunga attesa e attendere con pazienza il tuo turno. Una attesa che si prolungherà perché l’ufficio dovrebbe aprire alla 8.15 ma alla fine aprirà alle 9, perché a noi Italiani piace il caffè. A quell’ora la coda conta centinaia di persone.
Attendi e aspetti il tuo turno e speri nel frattempo che allo sportello ci sia un impiegato che parli l’inglese, il francese o lo spagnolo, ma purtroppo non è sempre così. Dopo molte ore, se tutto va bene, ti concedono il permesso, il permesso di tornare a casa tua o a al tuo posto di lavoro, sicuro che fino a quella nuova data di scadenza potrai stare legalmente nel paese che ti ospita. Questo è quello che vorrebbe ogni immigrato, non doversi nascondere o mascherare la propria identità.
Identità e dignità sono i due valori a cui ogni migrante aspira, altrimenti non avrebbe affrontato un lungo viaggio verso l’ignoto, di sola andata. Arrivare in Europa costa molto, non solo in termini monetari. Allo “sporco denaro” bisogna aggiungere la sofferenza del lasciarsi dietro amici, famiglia, ricordi e amori ma in viaggio si può perdere una cosa ancora più preziosa: la vita.
Quelli che hanno la fortuna di sopravvivere al viaggio sperano in una vita migliore, molti muoiono prima di sperare. Nessuno urlerà il loro nome né racconterà la loro storia.
Samba.
Giulia Saya