Nel corso di una diretta Facebook trasmessa lo scorso sabato, travolto dal polverone mediatico, il senatore Salvini è tornato sulla polemica relativa all’astensione del centrodestra al voto per la Commissione Segre. Lo ha fatto, in particolare, citando un classico del secolo scorso:
«Una bella commissione sovietica come nemmeno Orwell in passato. Conte, Renzi, Di Maio, Zingaretti andate a rileggere 1984, la politica che perseguitava il pensiero, le libertà, la passione, l’arte, il teatro perché facevano paura al regime».
Salvino invita l’opposizione e gli ex alleati a studiare meglio il capolavoro di Orwell, ma forse è proprio lui che avrebbe bisogno di una seconda lettura. Anche seguendo la riflessione del senatore, è ingenuo utilizzare il termine orwelliano come sinonimo di censorio o limitante: se ragionassimo così, sarebbe considerabile orwelliana anche la legge sulla blasfemia, questa ardentemente difesa da numerosi esponenti leghisti. In riferimento alla filosofia e alla sociologia del linguaggio, il termine orwelliano disegna qualcosa di ben più preciso. In Nineteen Eighty-four è proprio il linguista Syme, impegnato nella redazione dell’Undicesima Edizione del Dizionario di Neolingua, a chiarire le idee al protagonista Winston Smith: il newspeak, la neolingua, ha come scopo quello di semplificare il linguaggio per rendere meno articolata l’espressione, e conseguentemente la stessa essenza, dei ragionamenti e delle emozioni (almeno secondo la teoria wittgensteiniana I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, per voler fare una banalizzazione estrema).
L’aspetto più paradossale è che proprio il linguaggio politico dell’ex Ministro dell’interno è stata una delle controversie più discusse del primo governo Conte. Non solo il turpiloquio e l’hate speech (da zingaraccia a sbruffoncella), proprio quello contro cui la Commissione Segre è intenzionata a battersi, ma anche la banalizzazione estrema del linguaggio politico, quella sì propriamente orwelliana: accuse dalle quali numerosi leader populisti hanno dovuto difendersi, o almeno tentare di farlo. Un dibattito aperto sulla questione dell’abbandono del linguaggio dell’odio fine a se stesso a favore di un linguaggio costruttivo è dunque tra quanto di più anti-orwelliano si possa immaginare.
Nel corso della diretta, l’ex ministro rincara poi la dose:
«Un conto è condannare la violenza, i campi di sterminio nazisti o comunisti, perché Hitler e Stalin sono la stessa feccia, condannare gli errori e gli orrori della storia – altro conto è utilizzare questa storia per bloccare la libertà di pensiero e di parola e il “prima gli italiani”, perché secondo qualche cretino “prima gli italiani” è razzismo, bloccare gli immigrati clandestini è razzismo».
Il senatore ha spesso mostrato un’attitudine a manipolare e riscrivere la storia, plasmandola in forma omogeneizzata come un surrogato da computare in un sistema di messaggistica istantanea (aspetto ancora più ironica se si considera che il senatore Salvini ha compiuto studi storici). Come quando ha dichiarato che Bella Ciao è una canzone che non ha più senso, perché il fascismo è finito. Secondo questa linea di pensiero si potrebbe sostenere, ad esempio, che Anna Karenina sia un libro che non ha più senso perché l’Impero russo è finito: ma Anna Karenina non parla dell’Impero russo, o almeno non solo, ed è per questo che è un classico vivo e vegeto e non un semplice documento storico (mi sono qui divertita a parafrasare vagamente un celebre aforisma di Woody Allen, a proposito della lettura superficiale dei classici). Un’altra tendenza del senatore Salvini, ben rappresentata in questa dichiarazione, è quella di ergersi ad arbitro della memoria: giusto condannare gli orrori della storia, ma è giusto anche consegnarli a quello stesso passato che li ha prodotti. Gli slogan politici non si toccano, a quanto pare, anche quando non sono che poveri resti di una storia maledetta. Come quando, nel lontano 2009, Salvini decise di farsi beffe della memoria storica dell’apartheid, proponendo un provvedimento che doveva provocatoriamente scimmiottare la segregazione: bus separati per cittadini doc e stranieri a Milano (uno dei primi scandali che rese un giovane Salvini eurodeputato noto al grande pubblico). Un vero psicodramma storico: il problema però è che gli attori involontari, i cittadini discriminati, non avevano dato il loro consenso a partecipare alla seduta. Torna dunque alla memoria il Ministero della Verità, presso il quale è impiegato il nostro Winston Smith: il compito dei suoi alienati funzionari è quello di applicare la riscrittura storica, il negazionismo e la damnatio memoriae con quanto più zelo possibile.
L’ex ministro Salvini definisce orwelliana l’opposizione, ma non è forse lui il più orwelliano di tutti? Se egli si batte contro la Commissione anti-odio, si troverebbe forse meglio presso il Ministero dell’Amore? E in conclusione viene da domandarsi: non è forse che, dato il suo assenteismo cronico, l’ex ministro Salvini, anziché il Ministero dell’Interno, preferiva piuttosto frequentare il Ministero della Verità insieme al povero Winston Smith?
Agata Virgilio