Quanta strada si deve fare ancora per parlare di salute mentale senza nascondersi dietro stereotipi e un linguaggio improprio? Con quale coerenza si dice alle persone di chiedere aiuto, “mi raccomando”, se poi non abbiamo il coraggio di chiamare le cose con il loro nome? Soprattutto se il coraggio manca ai media nostrani, che sono evidentemente intenzionati a perpetrare l’anacronismo del disagio psicologico come peccato o colpa da nascondere.
Cosa c’entra Luigi Tenco con Meghan Markle? Apparentemente, nulla: uno è un cantautore italiano impresso nella memoria delle persone per i suoi testi semplici e struggenti e per il suo tragico suicidio, avvenuto in circostanze misteriose durante il Festival di Sanremo del 1967. L’altra è un’ex attrice statunitense che ha sposato il rampollo della famiglia reale britannica, dalla quale entrambi hanno deciso di affrancarsi dopo alcuni episodi che sono stati riportanti un’intervista resa pubblica questa settimana. Epoche diverse, luoghi diversi, contesti diversi. Diverse carriere. Livelli di popolarità non paragonabili. Il filo rosso che collega queste due persone è solo uno ed è la banalità con cui, a pochi giorni di distanza, le loro vite sono state passate in rassegna, semplificate o al massimo liquidate con una compassione superficiale a favore di pubblico. È stata sprecata quindi un’occasione per parlare di salute mentale.
Il monologo di Barbara Palombelli
Per quanto riguarda Luigi Tenco, ci ha pensato Barbara Palombelli, durante il suo raffazzonato monologo a Sanremo, visto da 10 milioni di persone, in prima serata, su Rai 1. Con il cattivo gusto di chi usa la morte degli altri per parlare di sè e per esercizi di vuota retorica, la giornalista ha inserito il riferimento al cantautore parlando della sua pseudoscellerata adolescenza pariolina, con lei e i suoi coetanei sempre alla ricerca di emozioni forti, visto che “non c’erano le droghe” (?). Parole sue: io negli anni Sessanta non c’ero. Di Tenco ha detto che “c’era chi giocava con le pistole in quel periodo”. Una frase infelice, sommaria e non corrispondente alla verità, secondo le ricostruzioni ufficiali e secondo la stessa famiglia Tenco. Proprio i parenti del cantautore hanno risposto con una lettera aperta, qualche giorno dopo, accusando la giornalista di aver parlato in modo inopportuno, derubricando a bravata giovanile quello che è il dramma del suicidio con cui Luigi Tenco e la sua famiglia si sono trovati a fare i conti.
L’intervista di Oprah Winfrey
Qualche giorno dopo, invece, il palinsesto di TV8 ha permesso a quasi un milione e mezzo di italiani di avere accesso a molti dei retroscena che hanno portato i duchi di Sussex a fuggire dalla famiglia reale britannica, dal suo rigido protocollo e da un ambiente che è apparso tossico e allo stesso tempo soggiogato dalle pressioni dei tabloid. Non che ci siano particolari novità, in tutto questo. Nel 1995 ci aveva già pensato Lady Diana a denunciare la situazione di abbandono e solitudine in cui si era improvvisamente trovata, sposando l’erede al trono britannico. Nell’intervista alla BBC aveva ironizzato sul fatto che “Probabilmente nessuno nella famiglia reale ha mai sofferto di depressione”, parlando dell’assenza di supporto psicologico all’interno di Buckingham Palace. Sarah Ferguson, ex moglie del Principe Andrew ed ex nuora della Regina Elisabetta, aveva detto a Oprah Winfrey nel 1996 che “No, far parte della famiglia reale non è una favola”.
I diversi approcci riguardo la salute mentale
A distanza di pochi giorni, quindi, siamo stati messi di fronte alla tematica del suicidio e della salute mentale. Dalla Rai è stato banalizzato in ottica paternalistica e moraleggiante, sottolineando ancora una volta il perdurare del tabù cattolico che fino al 1983 parlava di “peccato pubblico e manifesto” vietando la sepoltura per chi si toglieva la vita. In una lussuosa villa californiana, qualche giorno dopo, invece si è cercato di affrontare la normalizzazione della discussione sulla salute mentale. Come al solito, però, se il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il vestito di Meghan Markle, il suo presunto egocentrismo e le contraddizioni della sua vita patinata. Il problema di quest’intervista è l’averci messo di fronte ai nostri double standards, alla nostra doppia morale: Meghan Markle, in quanto bella, ricca e famosa, non ha diritto alla nostra empatia. Non ha diritto di soffrire, perché non sta sotto le bombe. Non è vero nulla di quel che dice, dunque: sapeva che sposando un principe avrebbe accettato di vivere in una prigione dorata per il resto dei suoi giorni e di essere data in pasto alla stampa universale.
La banalizzazione come ostacolo alla normalizzazione
La Markle ha esplicitamente dichiarato al mondo di aver avuto pensieri suicidi. Ha detto di aver obbligato il marito a non lasciarla sola, perché impaurita da quello che lei stessa avrebbe potuto infliggersi. Forse da queste due storie tragiche e diverse all’interno di contesti tanto patinati quanto decadenti abbiamo qualcosa da imparare. Banalizzare le questioni relative alla salute mentale e derubricarli a “capricci da divi” può avere un grave impatto sulla portata di queste problematiche. Può inasprirne la stigmatizzazione, rendendo più difficile per le persone che ne soffrono cercare aiuto e supporto. Come riportato da Fontanesi su The Vision, il Centro per la Ricerca sui Suicidi dell’Università di Oxford ha sottolineato in un suo studio come i media banalizzino spesso le cause che portano una persona a togliersi la vita. “Problemi economici” e “delusioni amorose” sono le spiegazioni più ricorrenti nei resoconti giornalistici e nelle rappresentazioni cinematografiche.
L’aumento del tasso di suicidi
In un anno, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che siano 4000 persone a suicidarsi nel nostro Paese. Il 78% di queste sono uomini. Un dato su cui riflettere è l‘impennata del tasso di suicidi in un anno di pandemia, con un aumento del 20%. Sempre l’Oms sostiene che, nel 2020, ansia, attacchi di panico e problemi di depressione hanno iniziato a coinvolgere anche persone che non ne avevano mai sofferto. Oltre a ciò, si riscontra un peggioramento dei sintomi nei soggetti già affetti da malattie psichiatriche.
L’anacronismo dei media tradizionali
In questo contesto drammatico, quindi, ci sembra del tutto normale mandare a parlare di suicidio in tv una giornalista (che è tale dal 1980) che prepara un monologo su gente che “gioca con le pistole”. Cos’è questa espressione, se non una coperta corta e moraleggiante su un abisso che i media non hanno il coraggio di sondare né gli strumenti, evidentemente, per comprendere? Con quale coerenza si dice alle persone di chiedere aiuto, se poi non abbiamo il coraggio di chiamare le cose con il loro nome? Nello Stato dell’Oregon è possibile assentarsi da scuola per questioni legate alla salute mentale. Nello Stato di New York la salute mentale si studia a scuola. Oprah Winfrey realizza una trasmissione in cui parla apertamente di pensieri suicidi e la manda in onda sulla Cbs. Intanto, in Italia, una giornalista che fa questo lavoro da quarant’anni va in tv e parla di giochi con le pistole. Forse, è il tempo che i media tradizionali italiani recuperino e smettano di perpetrare anacronismo e senso di inadeguatezza.
La battaglia del linguaggio sulla salute mentale
Come avviene per le altre battaglie, è il linguaggio uno dei campi su cui si combatte la guerra allo stigma. A partire dal concetto base che lo stato di salute mentale è solo uno dei molteplici aspetti della vita di una persona, senza identificare il malato con la malattia. Non parlare di salute mentale, poi, rischia di rendere immediato il collegamento tra il disagio psicologico e gli esiti più tragici. Uno statunitense su cinque, ogni anno, si trova a fare i conti con un disagio di tipo mentale. Molti di questi lo affrontano e tornano in salute o comunque familiarizzano con le strategie più efficaci per affrontare il disturbo.
I social un passo avanti
Gli under 30 oggi hanno gli strumenti e gli spunti per dialogare con maggiore apertura su questi temi, mentre il tema della fragilità sembra di difficile acchito nelle generazioni che l’hanno interiorizzata come colpa, peccato e, comunque, aspetto da nascondere. Sui social non è raro imbattersi in profili dedicati a tematiche di questo genere. Professionisti, blogger e influencer spesso ospitano sulle loro pagine post e interventi dedicati all’importanza della salute mentale e alla necessità di abbattere le stigmatizzazioni. Netflix ne parla apertamente in serie tv, come 13 Reasons why. Il fatto che un’attrice ricca e famosa decida di ammettere un disagio psicologico è un piccolo passo verso la normalizzazione della discussione su queste tematiche. Un modo per capire che la fragilità è trasversale a fasce di reddito, popolarità e stabilità professionale o familiare. Speriamo di arrivarci, prima o poi.
Elisa Ghidini