Max Klinger, scultore tedesco romantico-simbolista di fin de siècle, fornisce un’imago nuova di Salomè in una sua opera scultorea del 1893. L’ispirazione gli viene anche dal suo imprinting musicale: amico di Johannes Brahms, l’artista sa tradurre questi input nel suo stilema artistico.
L’effigie di Salomè viene reinterpretata e questa scultura lascia un segno nell’iter iconografico di questo personaggio femminile. Klinger riprende l’eco del classico e l’utilizzo del candore ieratico del marmo bianco commisto a un nuovo modo di sentire e percepire il messaggio narrativo antico. La scelta di mescolare il bianco opale a un blocco marmoreo “argenteo”, il polimaterismo è la risposta artistica che dà lo scultore e che a primo impatto stigmatizza una severità, un rigore.
La passionalità di Salomè freddata in questa postura eretta, fiera, ma allo stesso tempo assente, esule dal tempo e dal luogo, come un simbolo di fatalità. Una figura che riecheggia nei lineamenti e nella pettinatura raccolta, un idioma classicheggiante, ma che poi trascende e giunge a una narrativa ottocentesca con le braccia morbidamente conserte che tradiscono un “gemito” nel serrarsi la veste.
Lo spirito decadente imprime la scultura di quell’ispirazione che ebbe l’artista leggendo l’“Erodiade” di Flaubert e il “Vice Suprême” di Peladan. Klinger sublima l’ideale di femme fatale di Salomè, revisiona la sua dissolutezza tingendola di un’aura di enfasi algida. Al cospetto di Salomè vi sono la testa di S. Giovanni e di un viso anziano, probabilmente il volto di Richard Wagner, musicista eccelso amato dall’artista. Il personaggio biblico dell’affabile danzatrice viene quindi iconizzato nella sua fermezza, consapevolezza di donna, predatrice e vincitrice, ma allo stesso tempo viene privato di femminilità e ardore, raggelati in un rigore assiale.
L’ideale dinamico conturbante di Salomè lascia il posto ad una algida eroina malvagia, priva di scrupoli, sinonimo di una staticità visiva ed emotiva.
Costanza Marana