Con la finale di Yokohama che ha visto il Sudafrica alzare la Coppa del Mondo si è concluso un lungo ciclo della palla ovale. Warren Gatland e Steve Hansen lasceranno rispettivamente le panchine di Galles e Nuova Zelanda, mentre gli inglesi di Eddie Jones saranno costretti a ricucirsi le ferite dopo una stagione chiusa senza titoli. Cosa cambierà nel futuro prossimo del rugby in vista della prossima rassegna iridata in Francia nel 2023?
Yokohama: la partita e una caduta di stile
Senza entrare nel dettaglio di una partita per molti aspetti complicata, risulta necessario capire le chiavi che hanno portato gli Springboks al terzo titolo mondiale di rugby. La squadra capitanata da Siya Kolisi ha impostato il match alla perfezione dando importanza alla fase difensiva. Inoltre, dopo pochissimi minuti è arrivato il vero momento di svolta con l’infortunio del pilone Sinckler. L’ingresso forzato dell’ormai “stagionato” Dan Cole, costretto a giocare per quasi 70 minuti, ha fatto implodere gli equilibri in mischia chiusa.
Per quasi tutto l’incontro il Sudafrica ha guadagnato calci di punizioni dopo i raggruppamenti, complici la prestazione monstre della prima linea springboks. Su questa falsariga, grazie anche alla precisione al piede di Pollard, i giocatori in verde si sono costruiti un buon tesoretto, amministrato per tutta la partita. Nell’ultimo quarto di gara, con il XV capitanato da Farrell ormai alle corde, gli uomini di Erasmus hanno dato il colpo di grazia con due marcature “pesanti”.
Dopo il fischio finale di Jérôme Garcès sono saltate agli occhi due cose. La prima, nonché la più bella, è stata la faccia del capitano Siya Kolisi nell’alzare al cielo la Webb Ellis Cup. Kolisi, infatti, è stato il primo capitano sudafricano di colore a sollevare la coppa più importante e in quell’istante ha riportato alla mente l’importanza storica e simbolica di Nelson Mandela. Meno apprezzabile invece è stato il gesto della nazionale inglese che si è sfilata dal collo la medaglia per i secondi classificati: una caduta di stile che dal rugby nessuno si aspettava.
La fine del ciclo Hansen
Calato il sipario sul mondiale giapponese, per Nuova Zelanda e Galles è arrivato un momento di fondamentale importanza per il futuro. Gli All Blacks, terzi classificati, cambieranno guida tecnica. Steve Hansen lascerà la panchina dopo sette anni da capo allenatore e altrettanti da vice. Per molti il settennato Hansen è da considerarsi come il periodo di massimo splendore del rugby mondiale, con vittorie a profusione e un dominio mai visto prima. Da capo allenatore chiude con un mondiale in bacheca e sei Rugby Championship. Sul futuro dei “tutti neri” non abbiamo molti dubbi. Con i fuoriclasse in rosa e i giovani talenti emergenti non sarà difficile riprendersi il primato nel ranking in tempi tutto sommato veloci: Sudafrica ed europee permettendo. Insieme a coach Hansen lasciano la nazionale anche cinque “senatori” come il capitano Read, Ben Smith, Todd, Crotty ed il divo Sonny Bill Williams.
La fine del ciclo Gatland
Discorso un po’ diverso per quanto riguarda il futuro del Galles. I campioni in carica del Sei Nazioni lasceranno dopo 12 anni Warren Gatland, l’uomo che ha segnato i successi dei dragoni degli anni ’10. L’attuale squadra gallese ha ormai uno zoccolo duro di ottimi giocatori, in particolare i tre del triangolo allargato, ma necessita di qualche innesto importante tra gli avanti. Il capitano Alun-Wyn Jones inizia a sentire il peso degli anni e i vari Moriarty, Tipuric e compagnia non si sono dimostrati costanti nelle partite chiave. E’ ipotizzabile che in un futuro prossimo le chiavi della mischia saranno affidate a Josh Navidi, numero 8 con ampio margine di miglioramento e leader carismatico del pack. Con il ritiro prematuro di Warburton e Jones che non potrà competere in eterno, i gallesi hanno un disperato bisogno di nuove guide. Gatland chiude la sua esperienza gallese con ben 4 Sei Nazioni. Il suo successore Wayne Pivac dovrà faticare molto per far rivivere i fasti di Gatland ai tifosi del Millennium Stadium.
Gli equilibri futuri
Da questo mondiale abbiamo capito molte cose. La prima è che il Sudafrica, considerando l’età media del XV, sarà una nazionale che dominerà anche nel prossimo quadriennio. Il miglior giocatore del mondo del 2019 è Pieter-Steph du Toit, classe 1992. I vari Etzebeth, De Klerk, Pollard, De Jager, Kolbe, e compagnia sono tutti giocatori nel pieno della loro carriera e nessuno supera i 30 anni. Stesso discorso per l’Inghilterra, che ha costruito una base di giovani talentuosi e che già dal Sei Nazioni di febbraio potrà riprendersi dopo la delusione di Yokohama. I veri punti interrogativi sono essenzialmente due: Australia e Francia.
Gli Wallabies hanno messo in luce un ragazzo che potrebbe in pochi mesi diventare un vero e proprio crack: il classe 2000 Jordan Petaia farà impazzire tutto l’emisfero sud in tempi brevissimi. Ciò nonostante, manca un vero ricambio in mischia dove solo il capitano Hooper è sicuro di una maglia. Primo obiettivo per gli wallabies sarà quello di sostituire David Pocock, fuoriclasse a dir poco fondamentale per il pack.
Per i galletti francesi, chiusa la triste parentesi sotto la guida di Brunel, dovrebbe aprirsene una più stimolante. Probabilmente la squadra verrà affidata all’ex mediano di mischia Fabien Galthié che avrà l’arduo compito di portare i francesi fino al mondiale di casa del 2023. Per la Francia le basi sono molto buone. Innanzitutto, dopo un periodo di alti e bassi si è trovata un’apertura di livello con il classe ’99 Romain Ntamack. Sarà anche solo il primo tassello di un puzzle ben più ampio, ma avere un numero 10 attorno a cui costruire il resto della squadra è già un gran bell’andare. Pensiamo solo a quanto ne avremmo bisogno noi italiani… Il prossimo quadriennio sarà sicuramente ricco di sorprese e soprattutto ricco di grande rugby!
Federico Smania