Rohingya, il grido dei rifugiati nei campi del Bangladesh

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Migliaia di rohingya hanno manifestato nel solo spazio a loro disposizione, gli invivibili, fatiscenti campi profughi in cui sono confinati da quando il Bangladesh ne ha accolti circa un milione in qualità di rifugiati. Chiedono di poter tornare nella propria patria, a condizione però che sia loro garantito il minimo sindacale in termini di cittadinanza e diritti umani. Cosa che il Myanmar non sembra disposto a fare: di qui il rifiuto opposto dalla minoranza alla recente offerta di rimpatrio che le autorità birmane hanno porto a famiglie cui i militari hanno raso al suolo le case, dopo aver violentato e ucciso i parenti e gli amici più cari.

La diffidenza, in questi casi, appare piuttosto logica, ed è peraltro condivisa dalle Nazioni Unite, oltre che suffragata dall’evidenza dei fatti, in quanto i pochi rohingya rimasti nei villaggi del Paese d’origine continuano a subire incursioni e attacchi brutali. La relazione dell’ONU ha definito quanto è stato commesso su questo popolo “un esempio da manuale di pulizia etnica”, anzitutto in virtù dell’orribile accanimento sulle donne, volto in modo palese a cancellare la possibilità di una proliferazione del gruppo, a eliminarne la discendenza.

Era l’agosto del 2017 quando i primi 730.000 hanno lasciato la loro terra e sono fuggiti in Bangladesh per scampare alle violenze dei militari, che secondo un rapporto concluso giovedì scorso dalle Nazioni Unite hanno utilizzato lo sterminio e lo stupro etnico di massa in modo sistematico. Una relazione che non è stato facile concludere, perché il Myanmar ha negato l’accesso ai funzionari; e questo rende ancora più improbabile che i rohingya accettino qualsiasi offerta in termini di rimpatrio, visto che neppure l’ONU può garantire che saranno concesse loro le condizioni basilari per sopravvivere.

Dall’indagine emerge come l’82 percento degli stupri di gruppo siano stati commessi dal Tatmadaw, cioè dall’esercito, che ha utilizzato questo ed altri mezzi analoghi nei riguardi della popolazione femminile come parte della propria tattica strategica per distruggere in tutto o in parte l’intera minoranza etnica, religiosa e linguistica. I rohingya sono infatti musulmani e hanno un loro idioma, distante da quello del resto della popolazione a maggioranza buddista; prima della crisi vivevano nella regione di Rhakine, al confine con il Bangladesh.

Le testimonianze dei rifugiati rivelano la profondità interiore del loro conflitto. Da un lato, il bisogno di tornare a casa, uscire dalle precarie condizioni in cui sono confinati, dove non c’è possibilità di lavorare né mandare i figli a scuola, manca la corrente elettrica e l’acqua ristagna; la nostalgia per le proprie terre, per le proprie case. Vivere nel più grande campo profughi del mondo significa essere esposti a ogni genere di sfruttamento e di abusi, oltre che alla tratta: non è inusuale che le ragazze, spesso minorenni, vengano rapite da organizzazioni criminali che le impiegano nei bordelli, e si è registrato un aumento del traffico sessuale nell’area che coincide con l’arrivo dei rifugiati. Ma dall’altro lato c’è la concreta realtà del fatto che nessuno assicura alle famiglie la possibilità di ritornare nelle abitazioni da cui sono fuggite, e che per adesso di cittadinanza non se n’è parlato proprio.

Il nodo, a conti fatti, è proprio quello. I rohingya non sono riconosciuti dallo Stato come minoranza etnica, in base alla normativa varata nel 1982, e di conseguenza non hanno diritto alla cittadinanza. E questo, secondo le leggi del Myanmar, significa che sono praticamente esclusi da qualunque opportunità. I villaggi dove abitano da secoli, dal punto di vista burocratico e di conseguenza fattuale, non gli appartengono: il loro status è quello di ospiti sgraditi, che non possono esprimere alcuna rivendicazione.

Come può dunque un uomo fuggito dal suo Paese, dove la sua esistenza non era di fatto riconosciuta, in seguito a uno dei più violenti episodi di pulizia etnica della storia recente, in assenza di garanzie da parte delle istituzioni di quello Stato, dire alla propria famiglia: “Torniamo a casa”?

Camillo Maffia

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