Robespierre: riflessioni su un mito della politica

Il 28 luglio 1794 venne ghigliottinato Robespierre. Oggi ricorre quindi il 222° l’anniversario della sua morte.

Non della condanna a morte, perchè non ci fu nessun processo.

Robespierre se ne sarebbe potuto lamentare, in quanto non avrebbe mai potuto contestare la violazione dei propri diritti.

Poiché, già prima di di ottenere la guida del governo rivoluzionario, era stato il fautore per eccellenza dello “stato di emergenza”, e anzi della necessità storica, e in assoluto etica, che costringe e legittima proprio i virtuosi a derogare da certe leggi e certi principi – anche i propri stessi principi – perchè quei principi medesimi trionfino.

La virtù che giustifica l’orrore e l’abuso, era ciò cui volle appellarsi proprio Robespierre, per giustificare il regime del Terrore e i tantissimi ghigliottinati senza un vero processo.

La giustificazione morale, che i suoi avversari vantavano per la sua esecuzione, fu proprio che aveva instaurato una dittatura abusando dei propri poteri.

robespierre
Robespierre (quello che appare in “Lady Oscar” )

 

 

 

 

 

 

Robespierre: una figura complessa e dalla coscienza tormentata

In realtà, Robespierre era stato sempre totalmente contrario alla pena di morte : ma la Francia rivoluzionaria si trovò a combattere su più fronti, sia all’interno che all’esterno, ed egli affermò perentoriamente che per salvare la Rivoluzione, e proprio per instaurare quel regno della giustizia in cui la pena di morte non sarebbe più stata necessaria né giustificata, si sarebbe dovuto derogare a certi principi, praticando un regime di Terrore.

La virtù avrebbe guidato il terrore a costringere il popolo ad adeguarsi ai giusti principi morali e quindi politici, senza i quali la democrazia e la libertà si sarebbero trasformati in abuso e corruzione.

Curiosamente, ragionamenti analoghi si sono trovati fino a tempi recentissimi nel Catechismo della Chiesa cattolica, che ammetteva la pena capitale, fra le altre cose, come necessaria in questa Terra di calamità.

Il Terrorismo: una ideologia

Ma la giustificazione del terrorismo come strumento, e non come fine, è tipico di tutti i movimenti rivoluzionari : “colpirne uno per educarne cento”.

Il loro obiettivo è quello di portare il Paradiso in Terra – trasformandola in un Inferno.

Forse, solo il terrorismo nichilista-islamista di quest’epoca per la prima volta trasforma la morte e il delitto in un fine in sé (in questo assimilandosi, casomai, al nazifascismo).

Attualità problematica di Robespierre

Se ne parlo oggi, incidentalmente in occasione dell’anniversario di quell’evento (che per molti storici rappresenta una svolta definitiva nel percorso rivoluzionario francese, ed anzi un momento centrale di tutta la storia della democrazia e delle rivoluzioni) se ne parlo oggi è proprio perché il nome di Robespierre è legato a temi che sono tornati di urgentissima attualità: lo stato di emergenza appunto, nonché il terrorismo, e il significato della democrazia, soprattutto quella diretta, che egli glorificava dato che Rousseau, il maggiore ideologo della democrazia, era la sua stella polare.

Mi sembra interessante mettere in evidenza le contraddizioni che esplodono quando si mettono a confronto certi discorsi che gravitano intorno a queste parole, a queste espressioni così dibattute: emergenza, terrorismo, democrazia, e poi liberalismo, stato di diritto, colpo di Stato ecc.

Ruotano tutte, in definitiva, intorno a quel Sole chiamato principio di Sovranità, e quindi alle legittimità del comando politico. In una galassia, che a sua volta ruota intorno a due grandi forze, che da sempre aspiriamo a conciliare: l’etica, e il potere.

La virtù, secondo uno come Robespierre, è il collegamento fra queste due forze, e chi possiede la virtù si giustifica quindi da sé, rispetto alla propria condotta.

Ma oggi, che non crediamo più in Dio, o in altre entità superiori, cosa giustifica la pretesa di questo o di quello di essere i detentori della virtù ?

Il dibattito su democrazia e diritto

Tutte le contraddizioni che dicevo, ed è questa la cosa curiosa, esplodono nella mani e nelle parole stesse di entrambi i fronti che si contendono il campo politico odierno.

Sia cioè di coloro che mettono in guardia dalla democrazia diretta, e dai suoi abusi, che soffocano il liberalismo, le minoranze, magari i pochi ma più consapevoli e riflessivi;

sia di quanti al contrario domandano o giusticano la proclamazioni di stati d’emergenza (o di un vero e proprio Stato di emergenza) proprio come paradossale, e dittatoriale salvaguardia della democrazia minacciate dalle minoranze che ordiscono complotti, attentati e colpi di stato.

I primi sostengono che sia necessario limitare, in via di principio e programmatica, il ricorso alla democrazia diretta (referendum ecc.) perché la generalità del popolo non può essere competente, e consapevole emotivamente, tanto da essere in grado di giudicare di questioni troppo complesse.

Costoro, in definitiva, sono stati definiti (e smascherati ?) di recente da Nadia Urbinati come dei semplici antidemocratici – proprio, mi sembra, poiché la loro ripugnanza nei confronti della democrazia diretta risulta aprioristica e programmatica. Non va bene, e non andrà mai bene, la democrazia piena e larga.

E soprattutto: costoro non fanno che rifarsi al primo periodo in cui si diffuse in cui il metodo delle elezioni popolari per determinare i governi, nel 1800.

Durante quel periodo, dappertutto almeno in Europa potevano votare solo i maschi, adulti, istruiti, dotati di un reddito superiore a quello della pura sopravvivenza. Nei fatti, meno del 10 % della popolazione dell’epoca.

Altri metodi consistevano nell’organizzare elezioni persino su tre livelli – per cui alla fine solo i pochi legittimati a pronunciarsi in occasione del terzo livello contavano davvero.

I detentori della virtù contro la democrazia ?

Ma ripeto chi può arrogarsi il possesso di quella virtù, in base alla quale escludere tanti altri dalle decisioni? Chi può decidere quale tema sia troppo complesso, perché tanti altri cittadini possano valutarlo?

E quale sarà la procedura per stabilire questi limiti alla democrazia, se non una procedura democratica? Non è un paradosso insolubile, questo?

Nel periodo in cui noi stiamo vivendo la democrazia, a norma di legge, rimane piena; ma l’assetto politico-economico, ha condotto nei fatti ad una espropriazione della capacità dei popoli di autodeterminarsi – in parole povere: almeno sulle questioni davvero importanti, il voto della maggioranza dei cittadini non conta nulla.

Forse non è una caso se adesso, che questa situazione sta causando una convulsa reazione di rabbia e rivendicazione di diritti sostanzialmente usurpati, proprio adesso prendono quota idee e proposte che fino a pochi mesi erano quasi bandite (aumentare il quorum per la validità dei referendum, ad esempio).

Le idee di limitazione della democrazia, in nome della libertà contro la dittatura delle maggioranze, che elaborò Benjamin Constant duecento anni fa pensando soprattutto a Robespierre (per il quale peraltro sarebbe giusto parlare invece di dittatura di una minoranza).

Ma poi si dà il caso che in nome della libertà, e della sicurezza delle proprie libertà, ci siano molti che invocano la proclamazione dello stato d’emergenza, o magari del vero e proprio stato d’assedio, e quindi di limitare la libertà, per salvare la libertà.

O simmetricamente: guardiamo il caso di Erdogan, che utilizza il prestesto dell‘intentona (colpo di stato dilettentesco) per proclamarsi difensore della democrazia, violando i diritti civili – e instaurando qualcosa che assomiglia davvero molto non solo ad una dittatura, ma ad una dittatura di carattere totalitario.

O guardiamo alla Francia, dei Le Pen o Sarkozy, e all’America dei Trump.

Insomma: a volte si evoca la necessità di stabilire delle eccezioni alla democrazia, e allo stato di diritto – e lo si fa vuoi asserendo di voler salvare lo stato di diritto dagli abusi della democrazia; vuoi dicendo di voler salvare la democrazia da malvagi che si fanno solo scudo delle garanzie del diritto.

La ribellione delle masse

Di recente, casi diversissimi, hanno smentito, come una cartina di tornasole, i discorsi che giudicano del presente senza tenere conto che il potere delle masse non è qualcosa su cui scherzare – come accade invece nella teoria dell’élites che è italianissimo prodotto dell’accademia italiana.

Parlo della Brexit (un voto popolare che ha deluso le speranze di ceti finanziari e ceti intellettuali troppo impaniati in una concezione cosmopolitistica) oppure del fallito golpe in Turchia (con una mobilitazione popolare che ha per la prima volta sconfitto l’esercito, già autore di diversi colpi di Stato) per non citare casi meno drammatici ma davvero importanti (il voto a Roma e Torino per esempio, dove una classe politica legittimamente eletta aveva instaurato un sistema sociale e politico che faceva dell’abuso il proprio tratto distintivo).

Tutti questi casi, dimostrano quanto avesse ragione Bobbio, il quale ammoniva come la libertà dei singoli non possa mantenersi senza una democrazia autentica e diffusa, così come il contrario. E questo è un nodo da affrontare, che non si può aggirare.

Il richiamo alla virtù, come qualità metapolitica, non salvò certo Robespierre, anche se non era certo il mostro che poi è stato dipinto: quel precedente storico non va dimenticato.

ALESSIO ESPOSITO

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