Cosa succede quando la riflessione psicologica e la psicoterapia incontrano l’illustrazione? A giudicare dal lavoro di Roberta Guzzardi, che abbiamo raggiunto per un’intervista, può formarsi un sodalizio formidabile sul piano non solo creativo, ma anche etico.
Psicologa, psicoterapeuta e illustratrice, Roberta Guzzardi ha pubblicato a fine 2021 il suo primo libro, Io e (il) Mostro (Fabbri Editori). La vocazione di normalizzare vissuti di difficoltà e disagio attraverso l’arte non meno che attraverso il colloquio terapeutico, però, viene da lontano. In un’intervista telefonica ce l’ha raccontata, portandoci dietro le quinte di rob_art_illustrazioni. Facendoci scoprire, insieme alla sua storia, anche alcuni aspetti curiosi e affascinanti del processo creativo.
Cominciamo dal principio: in che modo Roberta Guzzardi è diventata “Rob Art”?
Roberta Guzzardi:
«Disegno da tutta la vita. Quand’ero piccola, il mio sogno era di lavorare alla Walt Disney. Con l’idea di diventare fumettista, dopo il liceo mi sono trasferita dalla Calabria a Roma, dove ho frequentato per tre anni una scuola di fumetto. Il confronto con tante persone dal grande talento artistico in un contesto più effervescente di quello da dove provenivo io, però, mi ha molto demoralizzata. Guardando alla perizia tecnica dei miei compagni, ma anche alle sfide impegnative rappresentate dalle lezioni di anatomia e prospettiva, dubitavo di saper davvero disegnare. Così, sentendo di non avere ciò che serviva, ho iniziato a sentirmi nel posto sbagliato. All’epoca non capivo che non occorre avere lo stile di chi ci sembra bravo per maturare una linea propria, dotata di un suo potenziale espressivo. Perciò ho abbandonato.
Nel frattempo, però, su insistenza di mio padre – un matematico che voleva avessi tutti gli strumenti per garantirmi un futuro – avevo frequentato Scienze della Comunicazione. Non mi piaceva particolarmente, se non per gli esami di Psicologia. Così ho cambiato facoltà, laureandomi in Psicologia e frequentando poi la scuola di Psicoterapia. Una volta avviato il mio studio, sentendo la mancanza del disegno ho ricominciato a disegnare assiduamente, soprattutto in digitale, grazie a una tavoletta grafica. Tutti gli amici cui li mostravo, colpiti anche dai contenuti di questi lavori, influenzati dai miei studi e dalla professione, insistevano che li pubblicassi su Instagram. Io però ero restia: disegnavo per me, come sfogo e riflessione. Ma alla fine mi hanno convinta.»
C’è stato un momento di svolta, o il successo è arrivato a poco a poco?
Roberta Guzzardi:
«I disegni piacevano e, per puro caso, avevo iniziato anche a lavorare come illustratrice, realizzando alcuni story-board pubblicitari su commissione. Alcuni, tra l’altro, proprio per giocattoli del franchising Disney, realizzando quindi indirettamente il mio sogno di bambina. Grazie alla pubblicazione sui social, soprattutto, insieme alle prime commissioni era arrivato il coraggio di dire che disegnavo, di mostrare di più. La vera svolta, però, è arrivata durante il primo lockdown. Cioè quando ho realizzato una vignetta diventata virale: solo su Facebook, ha ottenuto 3 milioni di visualizzazioni. Da allora i social sono stati in continua crescita.
E pensare che quel lavoro per me aveva avuto sulle prime il sapore di una sconfitta, al punto che l’avevo parecchio denigrato! Infatti, seguendo il consiglio di una collega, avrei voluto scrivere un articolo che offrisse dei consigli utili su come affrontare le sfide imposte dalla pandemia. Lei lo aveva fatto e molti nuovi pazienti le si erano rivolti per ottenere supporto in quella situazione inedita. Io speravo, offrendo il mio punto di vista, di potermi rendere ugualmente utile scrivendo sul mio sito web, anche se lo trascuravo da anni. Però, niente da fare: non ero riuscita a scrivere nulla. Così, sentendomi una completa incapace, avevo ripiegato su un disegno con la ragazzina e il Mostro per protagonisti. E invece da lì ha avuto inizio un percorso che mi ha portata alla prima pubblicazione.»
Protagonista della vignetta che ha contribuito al tuo successo, il personaggio che hai citato, il Mostro, è probabilmente il più amato tra i tuoi. Com’è nato e che cosa simboleggia?
Roberta Guzzardi:
«In effetti, ho iniziato a disegnarlo ben prima di sapere cosa fosse: il suo significato è stato una consapevolezza che ha preso piede gradualmente. Nei miei disegni ha cominciato a comparire tanti anni fa, quando avevo circa vent’anni. Il suo aspetto, però, non era quello tenero, pacioccoso e rassicurante di oggi. Era un’inquietante melma scura che avvolgeva una ragazza che continuavo a disegnare. Data la differenza di fattezze, mi ci è voluto un po’ per ricostruire che si trattava dello stesso personaggio.
Per un lungo periodo, a un certo punto, ho smesso di disegnarlo, fino a che nel 2019 mi si è ripresentato nella forma attuale. Stavo prendendo parte a una challenge su Instagram per illustratori. In pratica, dovevo pubblicare un disegno al giorno per un mese basandomi su parole proposte dagli organizzatori. È stato in questa occasione che la ragazzina e il Mostro mi si sono presentati come i personaggi di una storia. E così, alla fine di questo mese, guardando i disegni mi sono ritrovata a capire il tipo di relazione tra i due personaggi. Chiarendomi le idee sulla vera identità del Mostro.
Il Mostro è, per dirlo nei termini di Jung, l’Ombra della ragazzina. Cioè quella parte di lei che è censurata, rimossa o semplicemente non ben consapevole. È però un’Ombra elaborata: col progredire della storia, infatti, la ragazzina familiarizza con lui, ci fa amicizia. E il Mostro finisce per diventare una sorta di guida, quasi un angelo custode.»
Quindi possiamo dire che Mostro ha un aspetto più amichevole proprio perché non è più qualcosa di rimosso e di censurato, ma qualcosa che progressivamente trova ascolto?
Roberta Guzzardi:
«Esatto. Va tenuto presente che all’inizio della loro relazione la ragazzina e il Mostro non riescono a capirsi molto bene. Lei è invaghita di un ragazzino e il Mostro ne sembra geloso, o quantomeno infastidito, e fa alcune cose che sembrano sabotarla. In realtà, il Mostro sta semplicemente cercando di farle capire che quella situazione e quella persona non vanno bene per lei. In questo, così come in altri casi, l’azione del Mostro è scomposta perché lui e la ragazzina non hanno ancora imparato a comunicare efficacemente. Ma l’intento del Mostro è e rimane quello di salvaguardarla. A mano a mano che lei capisce questa cosa, anche il rapporto tra i due cambia e così pure i modi in cui lui si presenta.»
Di recente, un altro personaggio ha fatto la sua comparsa nei tuoi lavori: Frastagliato. Chi è e cosa rappresenta?
Roberta Guzzardi:
«A dire la verità, non lo so ancora del tutto: essendo all’inizio, lo capirò piano piano com’è stato per il Mostro. Quello che posso dire è che Frastagliato è nato un giorno in cui mi trovavo in treno. Stavo tornando dalla Calabria, mia regione d’origine, a Roma dopo aver trascorso un periodo con la mia famiglia. Come tutti i fuori sede sanno, andarsene è sempre difficile. Mi sentivo triste e, in quel momento, come se avessi i confini poco definiti. Volevo esprimere questa sensazione, ma volevo anche generalizzarla decentrandomi, in modo che non fosse legata unicamente a me. Per questo ho scelto un personaggio maschile, anziché disegnare una ragazza.
A differenza delle vignette in cui compare il Mostro, che cercano sempre di offrire conforto o soluzioni ai problemi, quelle di Frastagliato sono più descrittive. Frastagliato non offre soluzioni, racconta solo come sta. E non sta bene. Attraverso di lui, il mio intento è raccontare stati di tristezza, di prostrazione o anche di depressione eliminando le censure. Frastagliato è la voce che descrive un malessere in un mondo in cui la depressione spesso è liquidata come una mancanza di forza di volontà. Lui racconta, ad esempio, che quando si sente giù prova ad aprire la finestra. Ma non riesce a godere del cielo terso, né a sentire il profumo dei fiori. E racconta anche come la depressione non sia una scelta, qualcosa rispetto cui colpevolizzarsi o, peggio, essere colpevolizzati.
Frastagliato è un po’ tutte le persone che hanno una sensibilità molto spiccata, alle cose belle e alle cose brutte. È chi sente forte e deve farci i conti. Come emerge quando pensa Assente, la ragazza con la quale la relazione è finita e che sta imparando a lasciar andare.»
Quindi Frastagliato non darà voce solo alla tristezza e alla difficoltà della vita, ma anche al bello?
Roberta Guzzardi:
«Sì, penso di sì. Perché la sua permeabilità, i suoi confini indefiniti e porosi, lo rendono più soggetto a determinati pensieri e problemi, è vero. Ma gli danno anche la possibilità di percepire e di vivere più intensamente tutti gli aspetti dell’esistenza. Semplicemente oggi Frastagliato rappresenta un certo stato di essere derivante da una certa personalità. Ma non è affatto detto che questo dovrà sempre essere uno stato negativo.»
Quando parli del tuo lavoro, racconti un mondo ideativo in divenire del quale non sempre conosci la direzione, né del quale hai il pieno controllo. Come avviene, allora, il processo creativo?
Roberta Guzzardi:
«Il mio lavoro è molto legato agli stati emotivi. Quelli che sto attraversando personalmente, ma anche quelli che sto affrontando nella mia professione o che sto studiando e approfondendo. In base a quello che mi “gira” dentro, nasce un personaggio. Che non è frutto di un pensiero, è piuttosto l’espressione grafica di uno stato emotivo. Una volta disegnato quel personaggio, nella mia mente prende forma anche la sua personalità: i suoi desideri, le sue credenze, i suoi bisogni… Tutto ciò che lo rende chi è. E finché resto sintonizzata su quel tema o su quello stato emotivo, quel personaggio continua a parlarmi dentro.
Del resto, avendo disegnato nel tempo diversi personaggi, si crea una situazione particolare. È come avere dentro la mia testa una classe piena di piccoli alunni che alzano la mano o si agitano al banco contendendosi la scena. Per esempio, se camminando per strada mi coglie un’illuminazione esistenziale, so già che probabilmente sarà il Mostro a raccontarla. Perché il Mostro, pur nella sua simpatica leggerezza, è quello che dà meglio voce a quel tipo di riflessioni. Se, invece, affronto una tristezza per cui non c’è soluzione, è più facile che sia Frastagliato a volerla raccontare.
Ognuno ha una gamma di emozioni e situazioni che gli si addicono di più e che mi viene più facile raccontare con un certo personaggio. Anche se mi rendo conto che ci sono situazioni che sarebbe molto interessante – e forse un giorno lo farò – far raccontare da più personaggi. Perché ognuno saprebbe dare il proprio punto di vista.»
Esiste, ad oggi, un personaggio femminile cui ti senti particolarmente legata, invece? E, se c’è, a quali situazioni ed emozioni dà voce?
Roberta Guzzardi:
«C’è un personaggio femminile che sto cercando di sviluppare per una futura graphic novel. Al momento si chiama Maya, ma non sono certa che si chiamerà così anche in futuro. Ho scelto questo nome perché rimanda al Velo di Maya e dunque alla separazione tra illusioni e realtà.
Questo personaggio ha a che fare proprio con questo: lo scontro tra la realtà delle cose e le proiezioni e le illusioni individuali. E dunque anche con le delusioni rispetto alla realtà. Nello specifico, lei è molto sentimentale e romantica. E questo le procura enormi difficoltà nel distinguere tra il dato oggettivo delle persone e delle situazioni che incontra e ciò che lei vuole. Credo che sia una situazione estremamente comune oggi, nell’ambito relazionale. E lei nasce proprio per raccontare l’incontro tra il desiderio e il suo limite nella realtà, ma anche una possibile soluzione a questo dramma.
Ecco, mentre il Mostro riguarda l’interiorità e Frastagliato un certo tipo di sensibilità, Maya è un personaggio più incentrato sulla dimensione relazionale. Lei rappresenta i modi sbagliati in cui ci approcciamo alle relazioni e i motivi per cui poi queste diventano deludenti. Ma anche, attraverso il suo percorso di crescita, quale potrebbe essere invece un modo più giusto per costruire un rapporto, specie sentimentale.»
In base a quanto racconti del Mostro, di Frastagliato e di Maya, ma anche del tuo processo creativo, la tua arte si connota in modo molto particolare. Sembra, cioè, un’arte con una fortissima vocazione: è corretto?
Roberta Guzzardi:
«Diciamo che i miei obiettivi si sono focalizzati nel tempo, cristallizzandosi specialmente su due aspetti. E questo è avvenuto in grandissima parte grazie al feedback delle persone che mi seguono.
Anzitutto, per me è fondamentale rappresentare quelle dinamiche interiori che tutti prima o poi viviamo, ma che tendenzialmente non raccontiamo. Ci censuriamo rispetto a certi vissuti, credendo di essere gli unici a provarli, mentre non è affatto così. Il mio scopo è normalizzare questi vissuti, facendo capire che – pur declinati secondo la specifica personalità di ognuno – li proviamo tutti.
Inoltre, vorrei offrire uno strumento alle persone dotate di una sensibilità molto spiccata, che le rende fragili, per aiutarle ad accettarsi. Vorrei fosse un punto di vista utile a non cadere nell’auto-svalutazione e nella denigrazione di sé. Che sono poi molto spesso un effetto per queste persone dell’impatto con una realtà in cui non si sentono capite e accettate. Vorrei che il mio lavoro permettesse loro di sentirsi meno sole, imparando ad apprezzare la propria diversità. E a volersi bene.
In generale, si potrebbe dire che lo scopo sia condividere soluzioni, strategie e modi di pensare che ho appreso nella mia esperienza personale e professionale. Da questo punto di vista, si tratta di piccole pillole con funzione fondamentalmente terapeutica. Un modo per dire a chi sta soffrendo o è in difficoltà: “Credo di poterti capire; prova a guardarla così“.»
Valeria Meazza