Cosa definisce, esattamente, un uomo, oltrepassando gli estremi fisiologici della nascita e della morte? Le buone e le cattive azioni? Le esperienze che pesano sul dorso? Gli ideali, gli impulsi, la carne, il furore, la compassione? Se a risolvere un uomo è la capacità di raccontare la spasimo di un altro, riuscendo, comunque, a svelarne la poesia del volto e la grazia del pianto, allora Rober Capa è stato uno specimen della categoria. Fotografo di professione e narratore di spirito, aprendo il diaframma della sua camera riuscì a fissare nell’eternità il patimento di intere generazioni, arrivando così vicino alle loro vite, tanto da insinuarvisi dentro. “Se la foto non è buona vuol dire che non eri abbastanza vicino” fu uno dei suoi proverbiali motti. E vicino lo era davvero, Robert Capa, tanto da mescolarsi e confondersi ai suoi soggetti.
La vita prima di diventare Robert Capa
Robert Capa nasce Endre Ernő Friedmann a Budapest, in Ungheria. È il 1913 e le coordinate mondiali si preparano a essere sussultate da profittevoli alleanze e cruenti conflitti. Lascia presto la natia terra – già con lo sguardo rivolto a destra – che lo respinge per le simpatie di senso opposto. La prima ambizione di Endre è diventare uno scrittore, inseguendo l’urgenza di espettorare un intimo febbrile. Ma studiare costa troppo e il giovane Friedmann non se lo può permettere. Arrivato a Berlino, nel 1931, riesce a trovare lavoro come assistente alla camera oscura presso la celebre agenzia Dephot di Simon Guttman.
Il servizio che Capa realizza sull’esule sovietico, Lev Trockij costa al fotografo il primo successo, instradandolo in una via senza più ritorno. Un suo scatto viene pubblicato, prendendo l’intera pagina, su Der-Welt-Spiegel. È l’inizio di una passione irremeabile con la fotografia, che Capa alimenterà fino all’ultimo respiro. Intanto in Germania il nazismo si fa strada e il giovane fotografo architetta di trasferirsi a Parigi. All’ombra della Tour Eiffel incrocia i destini di quelle che saranno le persone più care nella sua breve e colma vita: Henri Cartier-Bresson, David “Chim” Seymour e Gerda Taro. I tratti mitteleuropei posati con grazia sul temperamento ardito e rabattino della fotografa, fendono con un coup de grâce il cuore di Endre.
Robert Capa si consacra al titolo di più grande fotoreporter di guerra
Si piacciono, Endre e Gerda, e si amano. Condividono le stesse passioni, osservano con gli stessi occhi e sono ammalati del medesimo talento ritrattistico capace di intuire il dolore dalla forza espressiva di un volto. Si trasferiscono in Spagna, attratti dalla guerra civile che incendia il Paese, e che racconteranno a suon di flash. La loro intesa è testimoniata da alcuni scatti che ritraggono i medesimi soggetti e confluiranno negli archivi di entrambi, come “Miliziani repubblicani“. Si attesta proprio in questo periodo di slancio sentimentale il decollo della carriera di Capa, sancito dallo scatto “Morte di un miliziano lealista”. È per il fotografo quel casanoviano “attimo che vale una vita intera” quando barricato tra le trincee con 20 soldati repubblicani armati, in Andalusia, grazie alla compattezza della sua fedele Leica immortala l’uccisione di un soldato.
È fatta, il Picture Post lo definisce, a soli 23 anni, il più grande fotoreporter di guerra del mondo. La serenità del fotografo che, nel frattempo, è definitivamente mutato in Robert Capa, dura, però, quanto il volo di un lepidottero. Proprio in Spagna, nel 1937, la sua amata Gerda viene travolta da un carro armato mentre è intenta a immortalare la battaglia di Madrid. L’episodio segnerà profondamente e irrimediabilmente l’artista, che dormirà con molte altre donne, alcune bellissime – tra cui l’eterea e superba Ingrid Bergman – ma nessuna sarà mai più la sua Gerda.
Il fotografo delle cinque guerre
Il fotografo che sperava di rimanere disoccupato per tutta la vita, ebbe la sfortuna di lavorare intensamente. Visse di certo in un’epoca in cui la storia, con la sua ieratica stilografica, cambiò per sempre gli equilibri mondiali. Alla morte della sua amata, Robert Capa matura l’esigenza di allontanarsi dall’Europa. Trascorre otto mesi in Cina, documentando con la sua camera l’invasione giapponese e la resistenza del Kuomintang guidato da Chiang Kai-shek.
L’intenzione dell’artista non si ferma alla superficie dell’orrore del conflitto ma sprofonda, ancora una volta, nella vita dei civili. Nasce proprio in questa occasione “Bambini giocano nella neve“. Uno scatto dal retrogusto idillico, nel quale contrappone l’infanzia rubata dei “piccoli diavoli rossi” allo svago scanzonato della fanciullezza. Ritorna in Spagna nel 1938, consapevole che la battaglia è ormai perduta, di fronte all’avanzata di Franco.
Robert Capa documenta il D-day
Testimone d’eccezione del secondo conflitto mondiale, Capa segue con la sua inseparabile camera alcuni dei momenti più salienti della guerra. Dopo essersi imbarcato insieme agli alleati, approda con la truppa a “Omaha Beach“, documentando il famigerato D-Day. Delle circa cento foto scattate a distanza ravvicinata, soltanto 11 sopravvivono a un maldestro operatore di camera oscura del “Time“. Senza le sue “magnifiche 11”, oggi non avremmo alcuna testimonianza fotografica dello sbarco in Normandia.
Nell’estate del 1947 Robert Capa riesce nella fatica di oltrepassare la cortina di ferro e visitare l’Unione Sovietica, accompagnato dall’amico scrittore John Steinbeck. I due visitano luoghi emblematici della Repubblica Socialista, guidati dalla volontà di comprendere senza emettere giudizi. Ritornato nel lato opposto della barricata, negli USA, insieme agli amici e colleghi Henri Cartier-Bresson e David Seymoure George Rodger fonda la Magnum, la prima agenzia fotografica della storia.
Israele, Indocina e poi la fine.
Un nuovo mandato foto reportistico invia Capa a Tel Aviv per tratteggiare le assi del neonato Stato d’Israele e il successivo scoppio del conflitto arabo-israeliano. È il 1948 e il fotografo intesse un altro importante legame della sua vita, testimoniando la realtà dei profughi nella nascente nuova nazione di cui si sentirà di fare, in qualche modo, parte. Qualche anno più tardi, la sorte – che per l’occasione veste i panni della rivista Life – lo porta in Indocina per sostituire un collega e seguire la fine della guerra fra la Francia e i Viet Minh. La nera signora bussa alla sua porta il 25 maggio del 1954, mentre sta partecipando a una missione sul delta del Fiume Rosso. Preso dall’inseguimento dei soldati che attraversano un campo, calpesta una mina antiuomo che gli risulta fatale.
È, di fatto, il primo corrispondente americano a cadere in Vietnam. Proprio lui, che ha sempre mitigato l’odio per la guerra e per i soprusi con la prerogativa di ammantare il volto più amaro con un velo di lirismo, ne viene travolto. Fotografo, narratore, esploratore, esteta, fine osservatore e conoscitore delle cose del mondo. Piaceva il vino a Robert Capa. Gli piacevano pure le donne e amava la compagnia degli amici che, neanche a dirlo, di cognome facevano Steinbeck e Cartier-Bresson. Ma aveva un dono speciale, una grazia che gli permise di raccontare la pietas umana in una maniera raggiunta da pochi altri dopo di lui.