Ho avuto il piacere di conoscerlo all’evento finale del Festival del Cinema Africano, d’Asia
e America Latina di Milano dell’anno scorso: il suo lungometraggio El amparo , aveva vinto il Premio
del Pubblico e per lui, cinefilo agguerrito, era stata una bellissima occasione per farsi
conoscere in Italia.
Il film, passato già nei festival di San Sebastián, Miami e Palm Springs,
racconta un terribile fatto di sangue in cui uno sfortunato gruppo di pescatori era rimasto
coinvolto tra Colombia e Venezuela, nell’88: durante il passaggio nella zona che dà il nome
al film, i protagonisti vengono massacrati e gli unici due superstiti vengono presi per
guerriglieri.
Il tutto è raccontato con uno stile forte e ruvido, visceralmente attaccato ai volti e
ai luoghi dell’ambientazione. Alla festa finale lo avvicinai per complimentarmi per il suo stile.
Prevedibilmente, la nostra discussione, metà in inglese metà in spagnolo, si tuffò in una
spirale di cinefilia, teorie cinematografiche, discussioni sul realismo, commenti e giudizi su
registi come Welles, il messicano Reygadas e il filippino Mendoza, Isabelle Huppert e la sua
passione per attori non professionisti, che fossero esordienti o borrachos (ubriachi di strada).
Un piacere per cinefili. Rimasti in contatto dopo l’evento, gli scrissi per parlare un po’ di
cinema con lui, da Caracas, si è subito concesso alle domande.
Che pensi del cinema Sudamericano in questi giorni e qual è la principale ispirazione
per quel cinema specifico secondo te?
Rispondo a titolo strettamente personale e, pertanto, assai discutibile e opinabile. Sono un
po’ stanco di un certo tipo di cinema sudamericano che ha avuto un momento di massimo
splendore a livello internazionale e che è un tipo di cinema che amo profondamente dato
che, tra l’altro, è proprio quello in cui mi sono formato. Sono quelli i film che mi hanno
ispirato a guardarmi intorno e a girarli io stesso. Così, il modo in cui dico che mi ha stancato
non implica affatto che non lo consideri un tipo di cinema molto importante. Però, in un
secondo momento, sembrava essersi affermato un certo “stereotipo di cinema
latinoamericano”, vale a dire “un certo modo di parlare e vedere l’America latina e,
soprattutto, il Sudamerica”. Dunque, ci sono alcune formule consolidate che a furia di
ripetersi stancano, soprattutto bisogna tener conto che la realtà latinoamericana cambia in
fretta, come il resto del mondo.
Pensi che per le nuove generazioni il cinema sia il mezzo giusto per esprimersi?
Nient’affatto, il cinema è solo uno degli strumenti, oggi ce ne sono migliaia. Dipende anche
da quello che ognuno vuole esprimere e perché…
Per capire un universo così bello e complesso come iI Sud America quali film
suggeriresti ai cinefili?
Oh, ci sono film meravigliosi! Sono tanti, impossibile elencarli tutti. Però, per porre un limite
temporale (e ingiusto), direi tutta la cinematografia dalla fine degli anni ’90 fino ad oggi.
Nominerò alcuni registi a caso, quelli che mi vengono in mente adesso, tipo Martín Retjman,
Raúl Perrone (Labios de churrasco), Pablo Trapero (i primi film di Trapero!), Pablo Stoll e
Juan Pablo, Lucrecia Martell (TUTTO di Lucrecia!!) Fernando Eimbcke, Carlos Reygadas, Paz Fábrega, Paz Encina, Pedro Gonzalez Rubio, Lisandro Alonso, (uno dei miei preferiti), Gerardo Naranjo, Amat Escalante, Julio Hernández Cordón (Las marimbas del infierno!)…tanti li ho sulla punta della lingua, però con qualche nome dovevo iniziare.
Come sta cambiando il cinema per la tua opinione? C’è un nuovo approccio al
realismo nell’aria?
Forse; non so se proprio nuovo… suppongo che i tempi cambino e le tecnologie ci
predispongano alle novità , così noi a poco a poco cambiamo abitudini e ci immaginiamo il
reale altrove. Vedo un mondo che muore lentamente e con esso, credo, qualche tipo di
realismo. Non so cosa succederà.
Nonostante tutto, continueremo a cercare le emozioni primarie, primitive. Ho visto ragazzini
di 11 anni ridere a crepapelle e piangere con i primi corti e con i film di Chaplin. Il realismo
mi ha sempre affascinato perché all’inizio mi suscitava impressioni romantiche: i miei limiti di
fronte all’infinito, all’incommensurabile, all’inspiegabile…questo mi commuove, questo cerco
e in questo momento lo trovo solo nell’arte quando la materia principale è fornita dalle
emozioni umane che fluttuano in questa realtà incommensurabile.
Cosa diresti a chi vuole diventare regista?
Di avere facciatosta e non vergognarsene, o, sennò, va bene vergognarsi, però che questo
non li paralizzi. Ci sono cose per le quali è meglio essere una mula che Albert Einstein.
Potresti dare ai nostri lettori qualche indizio sul tuo nuovo progetto dopo “El
Amparo”?
Assolutamente no. È troppo presto e in questo momento nel parlarne finirei col divagare
proprio come un politico, vale a dire come un idiota.
Traduzione di Giuliana Manfredi
Biografia
Rober Calzadilla (1975)
Attore, sceneggiatore e regista.
Ex studente presso la Escuela de Artes Escénicas Juana Sujo, laureatosi presso la
Escuela de Artes della Universidad Central de Venezuela. Scrittore e regista dei
cortometraggi Linea parterna (2006), El anzuelo y la atarraya (2009) ed El país de abril
(2013). Il suo primo lungometraggio, “El amparo”, scritto con Karin Valecillos, ha
partecipato al Festival de San Sebastián, al Miami Film Festival, al Palm Springs
International Film Festival e al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina
di Milano.
Antonio Canzoniere