“Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Efrin, Cizre e Kobanê, una confederazione di curdi, arabi, assiri, turcomanni, armeni, ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta. Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale. […] Si proclama un sistema politico e un’amministrazione civile fondata su un contratto sociale che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso una fase di transizione che consenta di uscire da dittatura, guerra civile e distruzione.”
Così recita l’introduzione alla Carta del contratto sociale del Rojava, un’ alternativa di governo, vita e politica allo Stato come noi occidentali intendiamo. Un’alternativa a tutta la devastazione che ha regnato e regna tutt’oggi in una Siria arresa, tra conflitti sociali e discrepanze etniche, tra guerre intestine e sfruttamento economico. Una carta che porta in alto il valore della lotta femminista e della rivoluzione delle donne in Kurdistan per la loro liberazione.
Tutte le necessità elencate, ancora gran parte mancanti in Siria, sono le conseguenze di anni di colonialismo degli Stati occidentali che hanno imposto, sopra questi territori e le loro popolazioni, un diktat feroce, le cui parole d’ordine sono violenza, oppressione, maschilismo. Con il progetto dell’autonomia regionale, in Kurdistan ancora oggi si porta avanti il concetto di “confederalismo democratico” dalle pagine teoriche e pratiche di Ocälan, che prima di tutto benedice e porta avanti la rivoluzione delle donne in Kurdistan.
Una lotta storica e attuale
Il percorso che le donne e gli uomini stanno attuando in Rojava è la rivoluzione delle donne, un cambiamento per una società femminista che ha come obiettivo principale la messa in discussione di tutte quelle pratiche e saperi figli di maschilismo, oppressione di genere, classe o etnia. Rimette in discussione dogmi che sono parte integrante degli Stati occidentali, colonialisti e imperialisti, sopratutto in quella che può essere considerata la storia del Medio-Oriente.
Il Rojava è un territorio abitato da una molteplicità di popolazioni, che hanno origini diverse ma che abbracciano lo stesso obiettivo di trasformare la loro società nella perfetta applicazione del confederalismo democratico, dunque esercitando l‘autogoverno e l’autodeterminazione. Il modello è infatti quello di una democrazia partecipativa, in cui le decisioni vengono prese dal basso attraverso delle grandi o piccole assemblee di quartiere. In ognuna di queste organizzazioni e istituzioni che hanno l’onere di prendere decisioni, è necessaria la partecipazione al 60% di donne.
Per quanto riguarda le unità di difesa, le donne hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella lotta per la liberazione e la protezione del Kurdistan, attraverso le unità specifiche, le YPJ. Un importante capitolo della loro lotta è stato in difesa degli ezidi a Sengal e a Kobanê contro l’ISIS. Le donne in Rojava stanno portando avanti una rivoluzione delle donne che ha come obiettivo la liberazione di tutte le donne del mondo.
Il settembre 2014 segnò una delle battaglie più feroci nella città di Kobane, dove le combattenti curde divennero un simbolo di resistenza contro l’Isis. Questo interesse, sebbene inizialmente superficiale, portò persino un noto marchio europeo a lanciare una linea di abbigliamento ispirata alle loro uniformi. Ma la rivoluzione curda, che coinvolge profondamente le donne, non si esaurisce in un evento mediatico: è una battaglia storica e politica che affonda le sue radici in un processo di liberazione sociale, economica e culturale.
Il confederalismo democratico: un nuovo modello di società
Al centro del progetto rivoluzionario curdo si trova il confederalismo democratico, teorizzato dal leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), Abdullah Ocalan. Questo modello, praticato nelle comunità del nord-est della Siria, si basa su tre pilastri fondamentali: la democrazia radicale, l’ecologismo e la liberazione delle donne. Quest’ultima rappresenta il cuore pulsante della rivoluzione, vista non solo come una condizione necessaria per una società nuova, ma come la chiave per abbattere il patriarcato, un sistema millenario di oppressione che ha radici profonde nella storia dell’umanità.
Il patriarcato, nato con la comparsa delle prime gerarchie sociali e politiche, ha sostituito il matriarcato, inteso non come dominio femminile, ma come una società equa e partecipativa. Le fondamenta di questo sistema si ritrovano nel nucleo familiare, dove il capitalismo ha posto le sue radici, riducendo le donne a ruoli riproduttivi e di cura, privandole della partecipazione alla vita comune.
Abdullah Öcalan scrive che “un popolo non può essere libero se le donne non sono libere”: questo significa che un popolo non può essere libero senza che venga ucciso il concetto del maschio dominante, della repressione violenta, del dominio unilaterale e di una discriminazione di genere sia nell’ambito culturale quanto economico. È dunque attraverso la rivoluzione delle donne in Kurdistan che lo stesso popolo, collettivamente, viene liberato da logiche di oppressione tipiche di uno Stato occidentale.
Quando si parla di rivoluzione delle donne in Kurdistan si intende anche un’organizzazione da parte delle combattenti in maniera totalmente autonoma. I movimenti per la liberazione delle donne già erano nati nel 1987 in Europa ma nel 1999, in seguito ad un Congresso dell’Unione Libera delle donne del Kurdistan (Yajk), nacque il Partito delle lavoratrici del Kurdistan (Pjkk), poi trasformato in Pja per sottolinearne, al centro della sua politica, la liberazione delle donne come la grande lotta internazionale.
Jineolojî: una nuova scienza per una nuova società
Da questa base teorica è nato il movimento delle donne curde, che ha attraversato diverse fasi di trasformazione. Dalle prime forme di resistenza nelle carceri turche alla creazione di assemblee femminili e di forze di autodifesa, questo movimento ha portato alla fondazione di Jineolojî, una disciplina che supera il positivismo maschile e borghese. Jineolojî propone uno studio alternativo della storia, dell’economia e della politica, basandosi su criteri plurali e femminili.
Il libro “Jin, Jiyan, Azadi. La rivoluzione delle donne del Kurdistan” è una testimonianza diretta di questa trasformazione. Scritto dall’Istituto Andrea Wolf e tradotto in italiano, raccoglie memorie, lettere e riflessioni di venti rivoluzionarie che raccontano il percorso di liberazione intrapreso.
Le donne curde non mancano di sottolineare che la ginologia è l’ideologia femminista che si studia nelle accademie, il luogo in cui si forma un sapere critico e libero sulla scienza e la consapevolezza delle donne. Alcune delle accademie sono state fondate nel 2012 e hanno portato avanti il progetto di una costruzione di spazi liberi e sicuri, dove le donne abbiano la capacità di chiedersi cosa sono e cosa vogliono diventare, che ruolo possono ricoprire e come possono conquistare e rivendicare la loro autonomia.
Oltre allo studio sui libri e alle discussioni, per la rivoluzione delle donne in Kurdistan è necessario anche imparare dalle pratiche di vita quotidiana. Ogni donna crede infatti che la sua compagna abbia qualcosa da insegnarle, grazie alle esperienze, e arricchire così la consapevolezza sulla vita.
La rivoluzione in un contesto geopolitico complesso
Nonostante i progressi, il progetto curdo continua a essere ostacolato a livello internazionale. La Turchia, approfittando delle crisi globali come le guerre in Ucraina e Palestina, intensifica la sua aggressione contro il Rojava, colpendo infrastrutture civili e costringendo la popolazione all’esodo, mantenendo il più delle volte queste repressioni sotto un cupo silenzio mediatico. Questi attacchi, condotti sotto il silenzio della comunità internazionale, mirano a distruggere il modello sociale del confederalismo democratico.
Le forze curde, nonostante il sostegno della coalizione internazionale anti-Isis, si trovano a fronteggiare una situazione di isolamento. Nei campi come quello di Al-Hol, dove vivono le famiglie dei combattenti di Daesh, si rischia la formazione di una nuova generazione di estremisti, mentre migliaia di foreign fighters rimangono nelle prigioni curde senza alcuna collaborazione da parte degli Stati di origine.
Un modello di resistenza
Il confederalismo democratico ha portato a una vera e propria rivoluzione sociale, soprattutto per le donne, che oggi occupano posizioni di leadership in tutte le istituzioni del Rojava. La mancanza di riconoscimento internazionale rimane un ostacolo significativo, non solo per il Rojava, ma per la possibilità di risolvere le crisi del Medio Oriente.
Le donne curde chiedono il sostegno della comunità internazionale per fermare gli attacchi della Turchia, riconoscere l’autonomia democratica del nord-est della Siria e garantire la stabilità della regione. Questo appello è un invito a unirsi a una lotta che non riguarda solo il Kurdistan, ma l’intera umanità.
La rivoluzione delle donne in Kurdistan è un esempio di resistenza e trasformazione che supera i confini geografici e temporali. È una lotta per la libertà e la dignità, per una società dove le differenze siano un valore e non un motivo di oppressione. L’obiettivo di questa rivoluzione e di tutte le sue organizzazioni locali è quello di liberare le donne dalle ingiustizie, con l’obiettivo di dimostrare al mondo che una società effettivamente equa e non discriminatoria è possibile. La via democratica, l’autodeterminazione, la cura e la necessità di insegnare consapevolezza sono le chiavi di questa rivoluzione.