Dopo la morte di Nahel, giovane 17enne ucciso a bruciapelo il 27 giugno nella Banlieue parigina di Nanterre ad un posto di blocco, l’intera Francia è stata messa a ferro e a fuoco per cinque notti: diversi gli incendi, le violenze, i saccheggi che hanno messo in ginocchio più di 20 città come Parigi, Lione, Marsiglia e Grenoble.
Tante le parole e le pagine che sono state scritte negli ultimi giorni sulla morte di Nahel, risultato lampante di una violenza borghese di stampo colonialista e razziale di fronte alla quale, negli ultimi vent’anni, le istituzioni hanno preferito voltarsi dall’altra parte.
Cosa sono le Banlieus?
Il termine che, in riferimento ai fatti d’oltralpe, negli ultimi giorni si trovava in bella vista su diversi giornali è Banlieue ovvero un modello di sobborgo popolare diffusosi in Francia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Questi i luoghi concepiti per ospitare i ceti più poveri e pensati per rimarcare la differenza, sociale ed economica, con le classi subalterne. Con la fine del colonialismo francese, ad ingrossare questa classe periferica della società, ci hanno pensato i migranti provenienti dalle ex colonie francesi.
Ad oggi, a riempire le Banlieue parigine sono circa 10 milioni, costretti a vivere in estreme condizioni di miseria, precarietà e di totale abbandono. Tutto ciò ha fatto in modo che Parigi diventasse la capitale di una nazione spaccata a metà: da un lato la costante immigrazione affiancata da una scarsa integrazione, dall’altra l’accentuazione della ghettizzazione delle classi subalterne. Il risultato? Lotte sociali che si trasformano in violenti e apolitici scontri con la polizia.
La Francia e l’uso politico della polizia
Il sociologo Mathieu Rigouste, che ha sposato il concetto di ricerca militante volta a prendere parte “alle lotte popolari contro il sistema di dominazione e oppressione”, sostiene che il problema della società francese sia una sorta di colonialismo perpetuo. Insomma, le Banlieue sono diventate i nuovi luoghi della segregazione razziale.
Questi non sono altri che i luoghi in cui si cova un potente e pericoloso odio nei confronti della polizia diventato il collante di quel tessuto sociale. In questi giorni stiamo assistendo a quella che è una vera e propria militarizzazione dell’intera nazione (venerdì 30 giugno sono stati mobilitati 45.000 militari) nonostante non sia stato dichiarato uno stato d’emergenza. I sobborghi francesi ci mostrano come le istituzioni parigine ricorrano sempre più frequentemente all’uso delle forze dell’ordine per reprimere qualsiasi forma di dissenso e all’uso delle armi più pericolose, cosa già accaduta anche per i gilet gialli o per la riforma delle pensioni.
La polizia ha assunto ad oggi un ruolo di protagonista nell’educazione della società volto a sostituire, in alcune situazioni, quello stesso ruolo che dovrebbe ricoprire qualsiasi stato che si proclama “sociale”, portatore e garante di diritti. È un processo che nel corso degli anni ha però finito per limitare lo stato di diritto a vantaggio di quel “meno peggio” sempre più vicino all’estrema destra di Marine Le Pen.
Quella strana eco nostrana
Anche nelle periferie italiane la presenza militare è diventata sempre più tangibile di quella sociale e politica. La narrazione che si fa dei sobborghi urbani parla sempre delle solite questioni come la criminalità, l’ignoranza e il demerito. Nient’altro. Tutto ciò contribuisce a plasmare una realtà sociale in cui ci sono abitanti di serie A e di serie B: c’è chi è ricco e merita di più e chi invece è povero e condannato ad una vita precaria e degradante.
Ma il danno più grave è dato dall’impatto che tale narrazione ha sugli abitanti delle periferie che si autoconvincono di non meritare di vivere una “vita bella” cioè degna di essere vissuta. La strada che abbiamo intrapreso è quella di una società a più velocità: due sistemi di giustizia, di educazione, di lavoro, di sanità che sono come rette parallele destinate a non intersecarsi mai. E se in Francia sono le Banlieues, in Italia sono le periferie nostrane, che si aggiungono al mito del Bronx americano. A unire tutte e tre è il fatto che facciano notizia solo quando c’è un’esplosione di criminalità.
“Fino a qui tutto bene”
Frase con cui si apre e conclude il film cult del 1995 con cui Kassovitz, il regista, vuole raccontarci e descriverci quella condizione di repressione sociale e politica. Ma ad un certo punto i protagonisti si rendono conto che non va tutto bene, che ci sono dei problemi che porteranno a violenze, crisi, morti.
Un film che oggi, dopo la morte di Nahel, potremmo definire un documentario che racconta di una periferia piena di ingiustizia, dolore e rabbia. Qui ritroviamo le istantanee delle Banlieues costruite appositamente per essere lo scarto della società, separate dal centro benestante ed ordinato, e in cui vivono i moderni barbari delle classi operaie.