Scontri e proteste a Tel Aviv: Netanyahu sospende la contestata riforma della giustizia in Israele

riforma della giustizia in Isreale

Le proteste in seguito al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant, colpevole di essersi dichiarato contrario al procedere con la riforma della giustizia in Israele, hanno portato il primo ministro Benjamin Netanyahu a sospendere quest’ultima nel tentativo di scongiurare scontri che potrebbero mettere a rischio la sicurezza del paese. La decisione del primo ministro, accusato tra le altre cose di voler promuovere la riforma per non dover affrontare le conseguenze del processo per corruzione che lo vede coinvolto, è stata inevitabile vista l’entità delle proteste, ma tutto sembra suggerire che non sia uno stop definitivo quanto piuttosto una pausa nel tentativo di far passare quella che è considerata la più grande manovra politica in Israele dal 1948.

Che la riforma della giustizia in Israele proposta dal governo Netanyahu stesse destando enormi preoccupazioni nel paese a livello economico, finanziario e politico non è una novità, ma l’entità delle proteste negli ultimi giorni è stata tale da costringere il primo ministro israeliano a ritornare sui suoi passi per la prima volta dall’annuncio della contestatissima riforma del sistema giudiziario. Il licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant, il primo tra i membri del governo a dichiararsi favorevole a una sospensione della riforma considerati i rischi per la sicurezza del paese, è stata infatti la scintilla che ha fatto divampare un incendio che ha coinvolto centinaia di migliaia di manifestanti in tutto il paese, pronti a tutto pur di opporsi all’ennesimo attacco alla democrazia promosso da Netanyahu.

In un contesto segnato dalla convivenza tumultuosa tra israeliani e palestinesi, teatro costante di scontri e privo di una costituzione, la riforma della giustizia che il governo Netanyahu sta cercando di fare approvare dal parlamento potrebbe avere conseguenze drammatiche e inaspettate, perché minerebbe in modo sostanziale la capacità della Corte Suprema d’Israele di farsi garante del precario equilibrio del paese, eliminando di fatto ogni velleità democratica dello stato.

La contestata riforma della giustizia in Israele

Fortemente voluta da Netanyahu, la riforma della giustizia in Israele proposta dall’attuale governo prevede tra le altre novità lo stravolgimento della composizione e del ruolo della Corte Suprema israeliana, un organo di fondamentale importanza per il mantenimento del sistema democratico nel paese. Israele non è dotato di una costituzione vera e propria, ma solamente di un insieme di leggi dallo status quasi-costituzionale, e ha un parlamento unicamerale (noto come Knesset) nel quale le decisioni vengono prese a maggioranza assoluta. Attualmente, Netanyahu e i suoi alleati controllano 64 dei 120 seggi disponibili alla Knesset e avrebbero quindi i numeri, sebbene risicati, per promuovere una riforma del sistema giudiziario israeliano che di fatto darebbe molto più potere all’esecutivo, limitando di molto la possibilità della Corte Suprema di valutarne e controllarne l’operato.

I punti più contestati della riforma della giustizia in Israele promossa dal governo Netanyahu, che a partire dall’inizio del 2023 hanno scatenato un’ondata di proteste tale da sotto-intendere la concreta possibilità di rivolte nel paese, sono due:

  1. Il maggiore controllo da parte del governo e della Knesset sulla nomina dei giudici della Corte Suprema, tale per cui la maggior parte dei nove membri dell’organo giudiziario verrebbero scelti dall’esecutivo. Inoltre alla Knesset verrebbe dato il potere di ribaltare le decisioni prese dalla Corte, nonché di decidere su quali leggi quest’ultima possa intervenire.
  2. La restrizione delle motivazioni per le quali il primo ministro può essere dichiarato non idoneo alla carica all’incapacità fisica o mentale e l’innalzamento del numero di voti necessari per rimuoverlo dalla carica dalla maggioranza assoluta ai due terzi della Knesset. Questo particolare punto della riforma della giustizia in Israele, per altro già approvato dal parlamento, è stato interpretato come il tentativo del primo ministro in carica di cambiare le leggi per non affrontare le conseguenze del processo per corruzione che lo vede coinvolto al momento, come conseguenza del quale Netanyahu ha accettato di firmare una dichiarazione di conflitto di interessi che ha infranto nel momento stesso in cui ha deciso di perseguire ugualmente una riforma del sistema giudiziario israeliano.

Entrambi i punti andrebbero a minare le fondamenta democratiche di Israele, concentrando nella mani del primo ministro e del governo – qualora questi avessero la maggioranza assoluta alla Knesset – un potere difficilmente contrastabile, poiché lo stato non ha una costituzione e verrebbe di molto limitata la possibilità della Corte Suprema di intervenire qualora venissero intraprese azioni anti-democratiche.

Il licenziamento di Yoav Gallant e le proteste a Tel Aviv

Nei primi mesi del 2023 le tensioni in Israele sono cresciute stabilmente, portando diversi esponenti politici e non del paese a esprimersi pubblicamente perché Netanyahu mettesse la parola fine al progetto di riforma del sistema giudiziario. Il governatore della Banca Centrale di Israele Amir Yaron ha dichiarato ai microfoni della CNN che, qualora venisse approvata dal parlamento, la riforma costituirebbe un rischio enorme per l’economia del paese, una dichiarazione supportata anche dal CEO di Wiz Assaf Rappaport, che preoccupato per la situazione di instabilità nel paese in seguito al tentativo di riforma avrebbe scelto di tenere congelati i 300 milioni di dollari guadagnati dall’azienda in Israele.

Non sono stati soltanto esponenti del mondo economico e finanziario a esprimere forti preoccupazioni sulle possibili conseguenze della riforma della giustizia in Israele, ma anche il presidente del paese Isaac Herzog, che avrebbe affermato che se portata avanti quest’ultima potrebbe condurre il paese sull’orlo di una guerra civile, come per altro sembrerebbero confermare diversi ex capi del Mossad, allarmati dalle potenziali minacce che le proteste contro la riforma potrebbero rappresentare per la sicurezza del paese. Inoltre, i dati raccolti dall’Istituto democratico d’Israele nell’ultimo mese confermano quanto il popolo israeliano sia in larga parte contrario alle modifiche del sistema promosse da Netanyahu, con il 72% degli intervistati che ritiene necessario un dialogo tra le parti e il 66% contrario all’alterazione dell’attuale ruolo della Corte Suprema.

Tuttavia, nonostante le importanti e variegate voci che si sono esposte contro la riforma negli ultimi mesi, fino a sabato sera il governo di Netanyahu si è dimostrato compatto nell’affermare la la necessità di portarla avanti. Ecco perché le dichiarazioni del ministro della Difesa Yoav Gallant, e il suo successivo licenziamento hanno comportato un importante novità nel dibattito di fuoco sulla riforma della giustizia in Israele, mettendo in atto una catena di eventi che si è conclusa con l’annuncio da parte di Netanyahu di una sospensione temporanea della riforma tanto criticata. Nelle sue dichiarazioni di sabato, Gallant ha sottolineato come il portare avanti a tutti i costi il progetto di Netanyahu rappresentasse un rischio per la sicurezza del paese viste le proteste insorte negli ultimi mesi, dichiarazioni rafforzate poi da un messaggio comparso sul suo profilo Twitter dopo la rimozione dall’incarico:

“La sicurezza dello stato di Israele è sempre stata e sarà per sempre la missione della mia vita. Il primo ministro di Israele rappresenta una minaccia per la sicurezza dello stato di Israele.”

La risposta del popolo israeliano al licenziamento di Gallant non si è fatta attendere, con migliaia di manifestanti pronti a invadere le strade di Tel Aviv già domenica e l’annuncio da parte di Histadrut, principale sindacato del paese, di uno sciopero generale storico nella giornata di lunedì 27 marzo, il più grande della storia di Israele. Centinaia di migliaia di persone hanno marciato per le strade di Tel Aviv verso la Knesset in segno di protesta per una riforma della giustizia che minaccia seriamente il funzionamento democratico di Israele, in una giornata di fuoco che ha portato anche a numerosi scontri tra polizia e manifestanti. La portata delle proteste e l’allarme lanciato circa un loro potenziale inasprimento hanno costretto il primo ministro Netanyahu a fare per la prima volta un deciso passo indietro nei suoi progetti di riforma della giustizia in Israele, tanto che nella stessa giornata di lunedì ha annunciato una sospensione temporanea della riforma.

L’annuncio di Netanyahu: prospettive future

Sebbene appaia evidente che quella annunciata da Netanyahu sia soltanto una sospensione temporanea del suo tentativo di far passare in parlamento la riforma della giustizia israeliana, tanto che rimane chiaro il suo intento di far sì che questa venga approvata entro l’estate, è comunque importante sottolineare come le proteste del popolo israeliano abbiano portato il primo ministro ad aprirsi a un dialogo precedentemente inimmaginabile. Un’apertura che, per altro, era stata fortemente auspicata anche dal presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden, che in una telefonata con lo stesso Netanyahu avvenuta lo scorso 19 marzo avrebbe ricordato al primo ministro israeliano l’importanza dei valori democratici per il mantenimento di una relazione pacifica e collaborativa tra i due paesi.

La sospensione della riforma della giustizia in Israele, risultato di pressioni interne e internazionali, è la dimostrazione che il tentativo di minacciare le istituzioni democratiche da parte di Netanyahu è destinato a incontrare una resistenza che il primo ministro non si aspettava. Il ruolo della Corte Suprema come garante della democrazia in Israele rimane al momento quasi intatto, sebbene non ci sia alcuna garanzia su quanto potrà avvenire in un futuro prossimo, tanto che non è da escludere un proseguimento delle proteste nel paese affinché sia del tutto accantonata la proposta di riforma promossa del governo Netanyahu. Inoltre, sebbene non sia mai stato considerato tra le principali argomentazioni dei manifestanti, è comunque necessario sottolineare il ruolo – spesso controverso – della Corte Suprema nella definizione dei rapporti tra israeliani e palestinesi. La Corte si è spesso espressa per tutelare i diritti delle minoranze, tanto che la limitazione dei suoi poteri potrebbe segnare un ulteriore peggioramento delle condizioni dei palestinesi che vivono in Israele, tuttavia non sono mancate negli anni decisioni discutibili come quella di confermare il diritto di Israele a occupare la Cisgiordania. Rimane evidente che, nonostante tutto, la riduzione del ruolo della Corte Suprema e l’accentramento di potere nelle mani di Netanyahu comporterebbero un peggioramento netto nelle condizioni di vita dei palestinesi, oltre che un definitivo abbandono delle velleità democratiche di Israele.

Chiara Bresciani

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