Da oltre 70 anni la Baia di Los Angeles nascondeva una discarica di rifiuti tossici nel mare. Circa 25 mila barili di scorie industriali raccontano una tragedia ambientale che lascia senza parole tutta la comunità scientifica.
Non molto lontano dall’isola di Santa Catalina, i ricercatori dell’Istituto di Oceanografia dell’Università di San Diego (California) hanno scoperto 25.000 fusti contenenti probabilmente DDT. Sebbene fossero consapevoli di trovarsi in un’area già fortemente compromessa dall’inquinamento, mai avrebbero immaginato una situazione così grave. Eppure, le immagini catturate dai droni sottomarini non lasciano dubbi: ci sono centinaia di rifiuti tossici nel mare della California.
Prima dell’Ocean Dumping Act
Secondo i registri storici delle spedizioni, le aziende industriali della California hanno scaricato nella baia ingenti tonnellate di rifiuti a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. Dalle ricerche del Los Angeles Times , fatte su una società di smaltimento della California, circa 2.000 barili di fanghi venivano mensilmente scaricati nell’oceano dal 1947 agli anni Settanta. Più precisamente sino al 1972, quando fu emanato l’atto MPRS, noto anche con il nome di Ocean Dumping Act. Quest’ultimo proibiva lo scarico in mare di sostanze inquinanti sia di origine statunitense sia straniera.
2011, le prime scoperte
Ai tempi David Valentine, professore di biologia e scienze della terra all’Università della California, catturò una serie di immagini preoccupanti dei fondali della baia. Infatti, scoprì alcune dozzine di barili in avanzato stato di deterioramento che, sparse a 12 miglia dalla costa di Los Angeles, contenevano concentrazioni elevate di DDT e altri pesticidi. All’epoca, il team di ricerca non poté stimare l’entità del danno all’ambiente, poiché non sapeva quanto fosse effettivamente grande quel misterioso cimitero chimico nell’oceano.
2021, le conferme
A distanza di dieci anni, il professor Valentine ha avuto la risposta che stava cercando, grazie a una nuova missione di esplorazione. Infatti, ispiratosi a un suo stesso lavoro (2019), è partito a bordo della nave Sally Ride. Imbarcatosi con un team di 31 persone, tra scienziati, ingegneri ed equipaggio, ha fotografato più di 25.000 barili di rifiuti tossici nel mare della California. Partiti con l’obiettivo di mappare l’area sottomarina della baia con veicoli subacquei autonomi, i ricercatori hanno scandagliato 36.000 acri di fondale marino.
In seguito, stupiti della scoperta, hanno effettuato ulteriori test per escludere eventuali errori di valutazione. Purtroppo, come affermato dal capo della spedizione Eric Terril, si sono avute solo conferme, sicché lo stesso leader, nonché direttore del Marine Physical Laboratory (MPL), ha definito “sbalorditivo” il territorio sommerso di rifiuti.
I risultati
A soli 10 miglia dalla costa di Los Angeles si stima che ci siano tra le 350 e le 700 tonnellate di rifiuti tossici di DDT, immersi a una profondità di circa 900 metri. Inoltre, dalle oltre 27.345 immagini di barili, sono emersi resti di rottami dispersi su un’ampia area dei fondali. Il dottor Valentine e colleghi hanno accertato la presenza di numerosi barili in decomposizione, ma ancora non si conosce il numero esatto che, secondo le stime, potrebbe raggiungere il mezzo milione.
I droni
Per ottenere foto ad alta risoluzione, è stata utilizzata la tecnologia sonar dei droni sottomarini. Questi robot sono in grado di adattarsi ai cambiamenti nella topografia e, volando a circa 20m sopra il fondale, inviano informazioni alla nave in superficie. A sua volta, l’imbarcazione Sally Ride trasmetteva in tempo reale ai veicoli autonomi dei segnali GPS subacquei, affinché potessero elaborare delle immagini quanto più possibile accurate.
Di solito, i dati rilevati dai droni sono impiegati per individuare oggetti, caratterizzare l’habitat del fondale e riconoscere pericoli. Sulla nave di ricerca, il team di esperti controllava le immagini ricevute, per un totale di quasi 100 gigabyte di dati sonar. Dal momento che l’area da perlustrare era molto ampia, si è preferito utilizzare un processo automatizzato, invece di procedere alla conta manuale dei singoli oggetti individuati. A tal proposito, i 60 barili confermati da Valentine nel 2011 hanno avuto un ruolo fondamentale per la convalida degli algoritmi di rilevamento sviluppati per la ricercare dei barili.
I DDT
L’indagine ha accertato la presenza dei fusti, tuttavia saranno necessarie ulteriori accertamenti per confermare se i fusti contengono effettivamente DDT. Chimicamente si chiama Dicloro-Difenil-Tricloroetano ed è un composto molto pericoloso per l’ambiente.
Sintetizzato per la prima volta nel 1874, gli USA lo bandirono nel 1972, così come fecero poi altri stati. Oggi è ancora venduto in alcuni paesi, prevalentemente tropicali, dove i danni causati dalla malaria sono maggiori di quelli ambientali. Considerato l’ampio uso del composto negli anni Cinquanta e Sessanta, la sua presenza nei fondali della baia non ha stupito i ricercatori. Tuttavia, ha sconcertato la densità e, soprattutto, la posizione dei barili, poiché situati fuori dalle discariche precedentemente documentate.
Rifiuti tossici nel mare e gli effetti
Quanto scoperto da Valentine potrebbe spiegare fenomeni anomali osservati da molti esperti in altri ambiti di ricerca. Ad esempio, uno studio del 2015 ha rilevato un’alta concentrazione di DDT nel grasso dei delfini tursiopi dell’area. Inoltre, in generale è noto da tempo “l’elevato carico corporeo del composto chimico nei principali predatori, che si nutrono nelle acque della California meridionale”. E ancora, si è recentemente scoperto un alto tasso di cancro nella popolazione di leoni marini dello Baia. In particolare: 1 leone marino adulto su 4 presenta la malattia.
Purtroppo, l’attuale scoperta pone ora un grande interrogativo sull’impatto dell’esposizione prolungata al DDT degli ecosistemi marini e delle persone. Nonostante i barili siano in acqua da molto tempo, il rischio maggiore è per le popolazioni attuali, poiché il deterioramento delle strutture potrebbe favorire la fuoriuscita degli inquinanti. Infatti, un primo problema da risolvere è comprendere lo stato di conservazione dei contenitori e poi progettare un piano di ripristino dell’habitat.
In tal senso, secondo i ricercatori, qualora non ci siano perdite, si potrebbe procedere con lo spostamento in un luogo dove lo smaltimento è più sicuro.
In attesa di risposte ottimiste da parte della scienza, l’uomo scrive un’altra pagina triste per il mare, che continua a soffrire la nostra indifferenza. Vittima silente, raccoglie le tracce del nostro egoismo su qualcosa che forse un tempo non conoscevamo bene, ma sospettavamo. Si poteva e doveva fare di più.
Carolina Salomoni