Secondo Pierre Hadot, in Goethe si possono ritrovare degli esercizi spirituali, cioè attività filosofiche mirate alle trasformazione di sé stessi, tipiche della filosofia antica. Quali sono dunque gli esercizi spirituali di Goethe, racchiusi nella massima “Ricordati di vivere”?
Per esercizi spirituali, Pierre Hadot intendeva quegli “atti dell’intelletto o dell’immaginazione o della volontà caratterizzati dalla loro finalità: grazie ad essi l’individuo si sforza di trasformare il suo modo di vedere il mondo al fine di trasformare sé stesso“. Si tratta dunque di pratiche, esercizi che hanno lo scopo non di informare, ma di formare l’individuo. Tali esercizi spirituali, secondo Hadot, sarebbero nati nella filosofia antica e si sarebbero evoluti ampiamente nella filosofia occidentale. Anche in Goethe, secondo Hadot, rivivono questi insegnamenti e proprio a questo tema ha dedicato un libro.
Il primo esercizio spirituale di Goethe consiste, secondo Hadot, nella concentrazione sull’attimo presente, l’unico in cui è possibile trovare la felicità.
Vivere intensamente ogni istante dell’esistenza, senza sentire il peso del passato ed evitando di proiettarsi nel futuro. Così Goethe consigliava al suo amico Eckermann in una loro conversazione del 3 novembre 1823:
Si tenga sempre saldamente legato al presente. Ogni situazione, anzi ogni attimo, ha un valore infinito perché rappresenta l’eternità nella sua pienezza.
Già durante il suo viaggio in Italia, il 27 ottobre 1787, aveva affermato:
Il momento è tutto, e il privilegio del saggio consiste precisamente nel condursi in maniera che la sua vita, per quanto dipende da lui, contenga il maggior numero possibile di momenti saggi e felici.
Anche nelle sue opere, Goethe ribadisce che la felicità può essere trovata solo nel momento presente. Quando, nel Faust , l’omonimo protagonista incontra finalmente Elena, la nascita del loro amore si esprime in distici in rima iniziati da Faust e completati dalla sua amata. Così comincia Faust:
L’animo allor placato non guarda a ciò che è stato né a quello che sarà. Solo il presente…
Risponde Elena:
… è la nostra felicità.
È significativa la poesia di Goethe, “Regola di vita”, incentrata sul valore dell’istante. Un estratto recita:
Se vuoi crearti una vita serena,
non devi preoccuparti del passato;
non irritarti minimamente,
ma goditi sempre il presente;
soprattutto non odiare alcuno,
e lascia al buon Dio il futuro!
Sono versi che ci ricordano il Carpe diem di Orazio, quando il poeta esorta la sua Leuconoe a non cercare di conoscere il futuro interpellando gli astri, ma di concentrarsi sull’attimo presente, l’unico modo per vivere una vita serena.
Secondo Goethe, gli antichi riuscivano a vivere nel presente e si concentravano sulla realtà circostante.
In una lettera a Zelter del 18 ottobre 1829, Goethe esprime la sua idea per cui gli antichi erano capaci di vivere nella “salute del momento”, mentre i suoi contemporanei vivono nella nostalgia del passato e del futuro. In relazione alle opere dell’arte antica, Goethe afferma:
Là si trova ciò che vi è di più meraviglioso nell’Antichità per chi possa scorgerlo con i propri occhi: la salute del momento in tutto il suo valore.
Nelle loro opere, secondo Goethe, gli antichi cercavano di fissare il kairos, cioè il momento opportuno, l’attimo in cui possiamo cogliere insieme passato, presente e futuro, trasponendoli in uno stato ultraterreno. Non si tratta più, dunque, di cogliere l’istante presente, ma di cogliere il senso profondo della vita, della presenza vivente degli esseri e delle cose.
L’errore dell’uomo moderno, secondo Goethe, risiede nel suo protendersi quasi costantemente verso l’infinito, perdendo il contatto con la realtà.
Goethe rifugge dalla tendenza dell’uomo moderno di vivere una vita triviale e banale, senza ideale, guidata dalla routine, dalle inquietudini e dai desideri egoistici che non permettono di cogliere lo splendore dell’esistenza. Lo sguardo antico, invece, secondo lui, era in grado di cogliere l’ideale nella semplice realtà.
A differenza dei moderni, secondo Goethe (Winckelmann, tr. it. in Scritti sull’arte e la letteratura):
Gli antichi percepivano con immediatezza la loro peculiare immanenza entro i deliziosi confini del mondo terrestre. […]
Per loro i fatti avevano valore, come per noi sembrano averne solo il pensiero e il sentimento. Tutti si attenevano all’immediato, al vero, al reale, e le stesse immagini della loro fantasia avevano carne e sangue.
Secondo Goethe, dunque, la grandezza degli antichi risiedeva nel loro interesse per la realtà più immediata, circostante. Gli antichi agivano nel presente. Conservavano, inoltre, uno sguardo più spontaneo e inconsapevole, vivendo a stretto contatto con la natura, non facendo prevalere le parole e il pensiero come i moderni.
Il secondo degli esercizi spirituali di Goethe, secondo Hadot, sarebbe lo “sguardo dall’alto”.
Per i filosofi antichi, lo sguardo dall’alto è un atto dell’immaginazione, in cui ci si figura di osservare le cose da un punto di vista elevato, sollevandosi da terra. Spesso assume le forme di un volo dello spirito nel cosmo, che si sradica dalla gravità terrena e rivolge uno sguardo critico alla piccolezza umana.
In Goethe, l’esercizio dello sguardo dall’alto prende forma come descrizione delle emozioni provate in un soggiorno reale o immaginario sulla vetta di una montagna, in un’ascensione aerea in mongolfiera, o come volo nel cosmo. Vedere le cose dall’alto permette all’anima di elevarsi e di osservare la vita terrena da un punto di vista diverso. Nelle opere di Goethe, fin dalla giovinezza, la vetta del monte permette una sorta di rivelazione. Così recita una strofa della sua poesia “All’auriga Cronos”:
Alta, ampia, maestosa la visione
si schiude della vita,
da monte a monte
fluttua lo spirito eterno
presago di eterna vita.
Lo sguardo dall’alto di una vetta porta alla presa di consapevolezza sia dell’infinito esterno a noi, che trascende ciò che è percepibile e concepibile, sia dei limiti interni alla nostra conoscenza.
Per Goethe, il poeta è “fatto come un uccello per librarsi alto sul mondo” e la poesia è simboleggiata da una mongolfiera.
Così Goethe definisce la vera poesia (in Dalla mia vita: poesia e verità):
La vera poesia si annuncia là dove essa sappia, come Vangelo mondano, con un senso di serenità interiore e di benessere esteriore liberarci dalle cure terrene che ci opprimono. Come un pallone essa ci solleva, insieme alla zavorra che è a noi attaccata, in regioni superiori, e lascia che gli errori intricati della terra si distendano sotto di noi come una veduta a volo di uccello.
La poesia viene definita come Vangelo mondano: un’espressione forte, che rende l’idea di poesia come buona novella per l’umanità. La vera poesia deve essere capace, secondo Goethe, di elevarci al di sopra dei pesanti turbamenti che ci attanagliano, e di farci vedere le cose dall’alto, con un certo distacco, quasi fossimo in volo su una mongolfiera o come uccelli.
Il terzo esercizio spirituale di Goethe, secondo Hadot, è la speranza.
Goethe dedica una sua poesia, intitolata “Urworte”, ai quattro elementi che regolano e determinano in modo ineluttabile la vita dell’uomo: daimon (demone), tyche (caso), eros (amore), ananke (necessità), elpis (speranza).
Daimon è la necessità interna che impone a ciascun individuo una unicità caratteristica. Tyche è il caso, la fortuna mutevole che vaga intorno a noi. Dall’incontro di questi due può nascere Eros, l’amore che può dare l’illusione di rendere libero chi ama, mentre in realtà lo incatena. Ananke è la volontà degli astri, il volere della totalità, il destino ineluttabile o voluto da un dio. Il quarto elemento, elpis, speranza, l’indomabile audacia dell’animo umano, che si sottrae al dominio di qualsiasi necessità.
Il quarto degli esercizi spirituali in Goethe è “il sì alla vita”.
I tre esercizi spirituali precedenti (la concentrazione sul presente, lo sguardo dall’alto e la speranza) sono accomunati da un filo conduttore: il gioioso consenso alla vita, la felicità di esistere. La gioia deriverebbe, secondo Goethe, dal “sentirsi nel mondo come in un tutto” (Elogio di Winckelmann), come insegnano gli antichi. Per Goethe realtà ed esistenza sono indissolubilmente legate alla gioia di esistere. In una lettera a Schiller del 14 giugno 1796, scrive:
Piacere, gioia, comunione con le cose, questa è l’unica cosa che produce realtà. Tutto il resto è vanità e delusione.
Goethe riteneva che la realtà fosse buona nonostante i mali della vita e la mutevolezza delle cose terrene.
Secondo Hadot, l’intuizione fondamentale di Goethe è stata quella di considerare la realtà una “eterna azione della vita”. In Goethe prevalgono sempre l’agire e il pensare sul parlare.
Per lo scrittore non bastano dunque la parola e la scrittura, ma è necessario prendere iniziativa, agire a livello comunitario e sociale. Gli esercizi spirituali, dunque, non si esauriscono in una mera pratica intellettuale, ma hanno un impatto sulla vita reale nella società. In questo senso va intesa la massima goethiana “Ricordati di vivere”.