Riconoscimento facciale in Italia: quanto non ne sappiamo?

Riconoscimento facciale in Italia

In Italia, il riconoscimento facciale viene usato molto più che in altri Paesi europei. Eppure, mancano i dati per aprire un dibattito che coinvolga i cittadini. Come e quanto vengono usate queste tecnologie?

Il riconoscimento facciale in Italia, insieme alle tecnologie biometriche, viene utilizzato dalla polizia. Ma in che modalità, dove, quando?
Questa è la domanda a cui ha cercato di rispondere un’inchiesta condotta da Irpimedia e StraLi (associazione non profit che promuove la tutela dei diritti attraverso il sistema giudiziario).

Un’indagine che, però, ha dovuto scontrarsi con la mancanza di dati e di trasparenza sul tema.
Il ministero dell’Interno in Italia appare infatti molto restio a fornire informazioni. In particolare, non è permesso ai cittadini accedere alle statistiche relative all’efficacia del riconoscimento facciale.

Al contrario di ciò che accade, ad esempio, in Germania e Paesi Bassi, dove i cittadini hanno il potere di conoscere e discutere di tali tecnologie, della loro utilità e dei potenziali rischi per la privacy e la libertà.

Riconoscimento facciale in Italia: il controverso database dei volti

Il sistema biometrico di riconoscimento del volto utilizzato nel nostro Paese si chiama Sari (Sistema Automatico di Riconoscimento delle Immagini)
Sviluppato dalla società italiana Reco 3.26, è stato acquistato dal ministero dell’Interno nel 2017. Dopo l’approvazione, nel 2018, da parte del Garante della Privacy, Sari è entrato in dotazione della polizia scientifica.

Grazie a questa tecnologia, è possibile confrontare l’immagine di una persona con i volti contenuti all’interno del database Afis (Automated Fingerprint Identification System), gestito dal ministero dell’Interno.
L’archivio include persone foto-segnalate di cui sono state acquisite le impronte digitali, ossia persone che hanno commesso reati in Italia, migranti irregolari, e chiunque debba rinnovare o convertire il permesso di soggiorno.

Quando Sari riconosce nel database la presenza di volti somiglianti a quello che si sta cercando, consegna una sequenza di foto ordinate in base alla probabilità che si tratti di un “match”.
I dettagli relativi all’algoritmo che regola il software, tuttavia, sono sconosciuti sia ai cittadini sia agli operatori stessi.
Sappiamo, comunque, che i software di intelligenza artificialeimparano” sulla base dei dati che vengono loro somministrati, di conseguenza proiettano i pregiudizi di chi le programma e le addestra.

E sul contenuto del database su cui opera Sari si è più volte discusso.



Nel 2019, Wired ha condotto un’inchiesta sulla presenza di cittadini stranieri rispetto a quella di italiani in Afis.
Nel 2020, al termine di un’interrogazione parlamentare, è arrivata la conferma di una presenza enormemente sproporzionata di cittadini stranieri (15.171.176, di cui 13.516.259 extra-europei) rispetto a quella dei cittadini italiani (3.289,196). Circa otto stranieri ogni dieci volti.
La grande differenza di numeri è data soprattutto dal fatto che, quando un cittadino straniero ottiene la cittadinanza italiana, è costretto a rimanere nel database per ulteriori 20 anni. Motivo per il quale l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) ha definito l’archivio Afis “discriminatorio.

Il ruolo giudiziario: manca normativa, ribattere a Sari è impossibile

Il riconoscimento facciale in Italia, secondo il Garante della Privacy e il Servizio Polizia Scientifica, viene utilizzato per “attività investigative tipiche” della polizia, in particolare nell’identificazione delle persone sottoposte a indagini.
Tramite Sari, le forze dell’ordine possono quindi effettuare una verifica dell’identità anagrafica di un soggetto, con il solo scopo di orientare le indagini. Questo perché l’identificazione non ha alcun valore probatorio.

Ma il sistema di riconoscimento facciale è stato utilizzato anche con altre funzioni.
Nel 2020, un pubblico ministero di Milano ha utilizzato Sari per analizzare il volto di una persona coinvolta in una rissa, confrontando le immagini registrate da un sistema di videosorveglianza con i volti recuperati da un telefono. Il riconoscimento del soggetto (che non può rappresentare una prova di per sé) è stato poi effettuato in tribunale, e dunque utilizzato per l’applicazione di una misura cautelare.

Questo episodio ha sollevato questioni riguardanti la privacy e l’uso della tecnologia di riconoscimento facciale in Itali, sia per la possibile violazione dei diritti individuali che per l’accuratezza del sistema, soprattutto in mancanza di una normativa ad hoc.
I risultati di Sari potrebbero condizionare l’individuazione di un sospettato, e ricevere facilmente una conferma in tribunale. Difatti, dal momento che nessuno conosce il modo in cui il software identifica i volti, è impossibile per la difesa usare l’inaffidabilità scientifica come argomento contro Sari.

Riconoscimento facciale in Italia: “opinione pubblica all’oscuro di tutto”

Al momento, su Sari e sul suo funzionamento la popolazione italiana possiede pochissimi dati.

Per quanto riguarda la diffusione del sistema, i numeri ottenuti dal ministero dell’Interno tramite avvocati ed esperti di StraLi documentano 79.362 ricerche effettuate nel 2022, con un aumento di circa il 65% nel 2023, arrivando a 131.023. Anche se non è chiaro se l’aumento sia dovuto a un maggior numero di operatori o a una più intensa diffusione del software.
Inoltre, il Viminale non ha voluto rispondere alla richiesta di dettagli sul numero di ricerche che hanno prodotto risultati operativi utili per le indagini. Perciò, non abbiamo dati sull’affidabilità di Sari.

Per quanto riguarda l’accuratezza dei dati raccolti da uno degli algoritmi su cui opera il software, l’ultima pubblicazione risale al 2016 (dunque prima dell’adozione del sistema da parte della polizia scientifica).
Ad oggi, secondo gli agenti, “non esiste una percentuale minima di somiglianza dalla quale si considera attendibile il risultato, ma la lista di candidati è sempre revisionata manualmente da un operatore specializzato“.

Altri dati mancanti sono il tipo di reati per il quale può essere impiegato il riconoscimento facciale in Italia. Dagli annunci delle questure e da articoli di giornale, si possono osservare casi di accoltellamenti in luoghi pubblici, frodi informatiche, rapine in farmacia, aggressione a pubblico ufficiale, scippi e furti in appartamento. Ma il rischio è che siano inclusi anche reati minori, e che possa quindi verificarsi un abuso.
In generale, ogni mille reati in Italia si effettuano 60 ricerche. Un dato impressionante rispetto a quello di Germania e Paesi Bassi, che al confronto ne effettuano meno di due.

L’inchiesta di Irpimedia e StraLi dimostra la volontà del ministero dell’Interno di utilizzare uno “scudo improprio per impedire ogni tentativo di comprendere qualcosa in più su una tecnologia che rischia di trasformare per sempre la nostra la società“.

Quel che è certo è che il riconoscimento facciale sembra essere diventato parte integrante dell’attività di polizia mentre l’opinione pubblica è rimasta totalmente all’oscuro di tutto. La risposta ricevuta da StraLi dimostra per l’ennesima volta quanto sia estenuante ottenere informazioni e quanto il puzzle sia lontano dall’essere completato.

Giulia Calvani

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