Riconoscere la personalità animale

Riconoscere la personalità animale può dare dignità alle loro esistenze.

Siamo tutti persone?

Nella giornata dell’11 Novembre un leone è fuggito da un circo a Ladispoli. Per sette ore l’animale ha vagato per le strade della città, mentre i cittadini si chiudevano in casa. Fortunatamente l’operazione di cattura non ha procurato alcun incidente, ma l’episodio porta di nuovo all’attenzione le problematiche circa l’utilizzo di animali nei circhi, e più in generale sui loro diritti. Nel dibattito bioetico autori come Sarah Chan e John Harris propongono una posizione interessante che invita a riconoscere la personalità animale.

Ciò significa guardare certi esseri viventi come se fossero delle vere e proprie persone, e pertanto includerli nella nostra stessa sfera di diritto e dare valore alle loro vite. Infatti, con il termine “persona” la tradizione ha sempre indicato quegli individui che esibivano capacità tali da garantire uno status morale.

Sebbene siamo abituati a pensare tale termine come legato unicamente all’interezza della specie umana, basta allargare il nostro sguardo storico e culturale per accorgerci che non è così. Nella società romana, per esempio, esso si applicava solo agli uomini liberi, così da escludere donne e schiavi. Ma nemmeno al giorno d’oggi possiamo affermare che tutti i Paesi del mondo concordino sull’universalità del diritto degli esseri umani. Dunque, è evidente che dando per scontata l’equivalenza tra “persona” e “essere umano” si pecchi di miopia, oltre che di specismo.

Poniamo di entrare in contatto con una società extra-terrestre più avanzata: come potremmo non considerare quegli individui come persone? Quali sono quindi i criteri utili per una definizione?

Una risposta difficile

Nel momento in cui abbandoniamo il pregiudizio che delimita il termine alla specie umana, ci accorgiamo subito che potrebbe estendersi a un’infinità di forme di vita a seconda dei criteri utilizzati. Partiamo da ciò che noi riteniamo rilevante quando riconosciamo nell’altro una personalità. In primo luogo potremmo pensare al linguaggio. Oggi non solo possiamo affermare con sicurezza che tutti gli esseri viventi comunicano tra loro (perfino le piante), ma i progressi dell’etologia e della psicologia comparata hanno mostrato che certi animali possono apprendere altri linguaggi (per esempio le scimmie con la lingua dei segni).

Un altro criterio per riconoscere la personalità animale sarebbe il più semplice “test di autoriconoscimento”, ossia la capacità di riconoscersi allo specchio. La lista di specie animali in grado di superarlo è lunga: cani, delfini, elefanti… tutti dimostrano una distinta percezione dell’“io”.

Oltre ad una percezione del sé nel presente, è importante stabilire anche una sorta di continuità psicologica con il passato e il futuro. Tuttavia, anche in questo caso scopriamo che la memoria non è qualcosa di esclusivamente umano. Pressoché ogni mammifero dimostra di possedere capacità mnemoniche che differiscono solo per gradi da quelle dell’essere umano. Per quanto riguarda la possibilità di compiere progetti per il futuro, i ricercatori hanno difficoltà nello stabilire criteri certi, poiché significa rendere conto del funzionamento della mente animale a livelli non ancora raggiunti, ma questa non è considerata un’argomentazione sufficiente a scartare tale possibilità.

Infine, una delle scoperte più sorprendenti riguarda la capacità di metacognizione di alcune specie di cetacei o primati. La metacognizione è la capacità di riflettere sui propri processi cognitivi. In poche parole, sono in grado di esprimere concetti come “non ho capito”, segno di una consapevolezza della propria vita mentale.

Sebbene gli studiosi non abbiano ancora stabilito una soglia sicura per il riconoscimento della personalità, le affinità appena elencate tra la mente animale e quella umana ci dovrebbero spingere a rivalutare le nostre forme di condotta nei loro confronti. Quando ci interfacciamo con un essere vivente di una specie differente, abbiamo qualcosa di molto più complesso di un oggetto inanimato. Di fronte a noi c’è qualcuno dotato di complesse attività mentali. Prova emozioni, nutre interessi, e soprattutto sente dolore e piacere. Un elefante è in grado di chiedersi perché un uomo lo stia pungendo con un bastone appuntito, mentre è obbligato a tenersi in equilibrio su una palla. Così come un leone o un’orca possono entrare in depressione per essere rinchiusi in spazi angusti.

A nulla valgono le difese degli addestratori, che spesso cercano di garantire che “gli animali sono trattati benissimo”. Dobbiamo affrontare l’idea che quelle davanti a noi potrebbero essere persone chiuse in gabbia.

Essere una persona è essenziale?

Il personalismo è una teoria che in passato ha ricevuto numerose critiche. Infatti, affermare che i diritti morali derivino dal riconoscimento di un essere vivente come persona, basandosi su criteri cognitivi, implica la pericolosa assunzione che alcuni esseri umani potrebbero essere lasciati fuori. Chi nasce con pesanti disabilità cognitive, oppure chi perde le proprie facoltà, potrebbe non possedere le abilità sufficienti ad essere inquadrato nel concetto di persona. Significa forse escluderli dalla sfera morale e trattarli come se fossero oggetti? Assolutamente no. Chan e Harris spiegano efficacemente che riconoscere la personalità animale significa semplicemente estendere i diritti e le nostre responsabilità a esseri viventi differenti, senza escludere chi manca tale qualificazione.

Si tratta di un criterio sufficiente, non necessario. L’invito è quello di mantenere aperti i confini entro cui garantiamo uno statuto etico e legale agli individui, riconoscendo che una differenza, perfino quella di specie, non può essere un motivo sufficiente a sminuire l’intera dignità di vita dell’essere vivente.

Alessandro Chiri

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