Nato nel dopoguerra, Richard Kalvar si distingue alla facoltà di letteratura inglese e americana per la sua indole controversa e nel pieno degli anni sessanta decide di perseguire la sua vena “estetica”, diventando assistente alla fotografia di Jerome Ducrot, nel campo ostico della moda. Mondo da cui ben presto decide di congedarsi per dedicarsi al ramo fotografico indipendente. Negli anni settanta diventa membro della Magnum Photos portando i suoi contributi eseguiti nei suoi viaggi imperituri.
La sua concezione di arte è piena d’ironia, tagliente sarcasmo; un invito a ridere alla Rabeleis, una fragorosa risata pantagruelica, e al medesimo tempo, un sorriso a denti stretti. Per Kalvar la fotografia è astratta, esula dal reale, accompagna su una strada parallela l’esistente. L’estroso, il brio della follia, l’attimo estemporaneo sono catturati dal suo obbiettivo che imbriglia quell’accenno di umorismo, o compiuto scherno, disseminati nell’etere quotidiano. La bellezza contempla il grottesco, non elude, non rinnega il “brutto”. “Il bello è il brutto, il brutto è il bello”, diceva Macbeth. Dove risiede il confine? Sicuramente è strutturato con l’assetto culturale contemporaneo ove il limite è sfumato, seppure nel passato, e lo dimostra una branca dell’iconografia, il “perfettibile” e l’umoristico risiedevano nella legion d’onore.
Kalvar sostiene un’etica del dissacrante. Dallo sguardo perplesso lanciato da una suora alla compagna durante una pausa caffè, al lassismo di un cane dalle molli membra, lascive, sul cordoglio della strada, alla revanche di un’anziana sdoppiata in un’immagine, dallo sguardo torvo e folle di uno strabico vicino un uomo che legge (quasi a emularlo), all’avvento di un piccione sulla testa di una signora al parco, infine alle ciocche di capelli sul petto di una giovane donna, a renderla quasi virile.
Il mondo dell’assurdo, dell’inverso echeggia nelle posture immortalate dall’artista ricordandoci come il fuori dell’ordinario sia ben presente nel nostro quotidiano e sia un memento costante, imprescindibile da noi.
Costanza Marana