“In Italia si investe poco nella ricerca scientifica”. Un motivetto ormai abusato, spesso con fini politico-elettorali, che però nasconde delle problematiche reali. Perché nel nostro Paese i finanziamenti statali non sono più incisivi? E soprattutto, perché i fondi privati hanno subito un netto calo? La risposta è più di natura economica che politica, proviamo a capirne i motivi.
Uno sguardo globale
Secondo i dati Eurostat e UNESCO, dal 2000 al 2015 si è verificato un radicale mutamento sociale che ha comportato un conseguente approccio alla ricerca scientifica sul piano globale. Quindici anni di un certo spessore sociopolitico, dallo shock del 2001 alla Grande Recessione di fine decennio. Eventi che inevitabilmente, seppure in modo indiretto, hanno influito sulle economie mondiali. L’Unione Europea, in quel periodo, è passata da avere un 29% di investimenti pubblici nel panorama globale ad un 23%. Percorso simile per gli Stati Uniti, paese icona della ricerca scientifica (per motivi spesso arcaici), che è passata dal 26% al 21%. Sempre in merito ai finanziamenti pubblici si osserva anche un incremento sostanziale della Cina che aumenta di dieci punti percentuali arrivando al 16%.
Discorso completamente diverso se si prendono in considerazione i finanziamenti privati. L’UE passa da un 25% di investimenti privati in ricerca scientifica nel diagramma a torta della Terra ad un 19%. Gli U.S.A diminuiscono di 14 punti, mentre la Cina aumenta di 20. Pensando ad un altro paese in forte evoluzione prendiamo come esempio il Giappone, che ad oggi è al primo posto tra i membri del G7 in termini di rapporto investimenti-PIL. Ripercussioni della crisi del 2007? A quanto pare. I risvolti sono infiniti, dalla politica all’etica, ma le mutazioni socioeconomiche stanno giocando un ruolo fondamentale.
L’Italia di ieri e l’Italia di oggi
In Italia si investe circa l’1,3% del PIL in ricerca scientifica. Poco, in confronto sia al 2,36% dei paesi dell’OCSE, sia all’1,95 dei paesi UE. Per non parlare degli investimenti nell’istruzione, dove ci posizioniamo al terzultimo posto in Europa, con quasi un punto percentuale in meno della media europea sempre rapportato al prodotto interno lordo. Un dato per certi buffo se si pensa all’importanza degli scienziati mondiali da un punto di vista storico. Nonostante il netto calo degli investimenti in ricerca scientifica tra il 2000 ed il 2015, il supporto italiano alle pubblicazioni è aumentato dal 3,2 al 4. Questo dimostra che la nostra accademia gode ancora di un certo peso nel panorama globale.
Sul piano statale entra in gioco la politica. La ricerca scientifica implica una progettualità a lungo termine, spesso troppo lunga per i legislatori che non trovano un tornaconto elettorale conseguente allo stanziamento di un’ingente mole di fondi. Da un punto di vista degli investimenti privati invece vanno analizzati alcuni cambiamenti a cavallo dei due millenni.
I finanziamenti alla ricerca scientifica spesso arrivano dalle grosse imprese nazionali, per un loro reale interesse nella r&s. Tuttavia, l’Italia da anni a questa parte non ha più un tessuto economico che poggia su quei pochi colossi in grado di stanziare milioni. La FIAT non è più completamente italiana, la Montedison ed il Gruppo Ferruzzi hanno chiuso nel 2002, la Olivetti e la Marzotto hanno perso la loro importanza, e così via. La nuova struttura economica italiana, costituita prettamente dalle PMI hanno inficiato di molto (per causa di forza maggiore) la propensione agli investimenti in ricerca scientifica
In una recente intervista, Luigi Di Maio ha dichiarato che per raddoppiare la spesa per arrivare al 3% del PIL basterebbero 12 miliardi. Conto molto approssimativo e presumibilmente errato, ma per allinearci agli altri paesi europei in questo momento è quanto mai necessario l’intervento pubblico, visto che l’apporto privato rischia di restare immobile per molto tempo.
Federico Smania