Tra i renziani, Travaglio e Scanzi: scelgo Agnese.

Partiamo da una prima considerazione. In Italia la “first lady”, così come abbiamo conosciuto le varie inquiline della Casa Bianca, non esiste e probabilmente non esisterà mai. Abbiamo avuto profili diversi di donne, più o meno amate dall’opinione pubblica, più o meno incisive nell’appeal mediatico dei loro compagni, ma le mogli e le compagne accanto ai vari Presidenti della Repubblica e Presidenti del Consiglio non hanno mai avuto un chiaro ruolo politico o una funzione di condizionamento dei loro partner. Ma, almeno stando ai più recenti, sono state fondamentali nel far percepire al pubblico un tratto fondamentale della costruzione mediatica dei leader del XXI secolo: essere uno come tanti, one of us. Si capisce perché, al di là del solito gossip politico – mediatico, la figura di Agnese sia stata decisiva nella conferenza stampa con cui a tarda notte di domenica scorsa Matteo Renzi riconosceva la schiacciante sconfitta al referendum e annunciava le dimissioni.

Casual, maglione a collo alto, pantaloni neri, in piedi vicino alla porta, ascoltando come uno dei tanti.  Formale e al tempo stesso subito pronta ad abbracciare il suo compagno, una volta terminato uno dei discorsi più complicati della sua avventura politica, quello di ammissione di una sconfitta di proporzioni inaspettate. Agnese è stata importante domenica scorsa in quanto emblema e al tempo stesso soluzione del processo che ha portato alla sconfitta di Renzi: lei rappresentava il Renzi umano, one of us, quello delle primarie 2012 per intenderci, che lentamente ha abbandonato camper e camicie bianche con maniche tirate per lasciare il posto a macchine blindate, corti e cortigiani come schermo protettivo inaccessibile da una realtà da cui il premier era sempre più distante.

Renzi non è stato per oltre due anni e mezzo di governo quello che, con il nodo in gola e la voce commossa, ringraziava la moglie e i suoi figli. Forse, e sottolineiamo forse, le cose sarebbero andate diversamente.

E Agnese Landini ha rappresentato domenica sera lo stile che è mancato al Paese in questi logoranti mesi di campagna referendaria e che ancora manca alla classe politica italiana, infilata nel vicolo cieco di una crisi di governo le cui soluzioni sono ancora lontane. E’ stata discreta e attenta, presente nei momenti giusti. Senza uscite fuori programma, senza mielosi appelli al voto. Si è dovuta sorbire insulti e volgarità sul suo aspetto fisico da parte dei tanti imbecilli da tastiera, attacchi per essere passata di ruolo insieme a tantissime altri insegnanti in tutta Italia. Ha giocato una parte nella comunicazione politica semplicemente restando se stessa.

Manca lo stile di Agnese agli Scanzi e ai Travaglio di turno che, anziché concedere l’onore delle armi, continuano a confezionare articoli infarciti di cattiveria e accanimento personale. Ma il loro obiettivo non era salvare la Costituzione? Manca lo stile di Agnese ai “renziani” ultimi moicani, gasati di un 40% che non vuol dire nulla, che rinviano sine die il momento del mea culpa e il bagno dell’umiltà indispensabili se si vuole ridare una prospettiva a Renzi e a quell’area politica.

Nella corsa partita subito a chi abbandonava prima il carro dello sconfitto, i brindisi, la gara a chi si accanisce di più sul cadavere… la figura di Agnese Landini, tra il silenzio e l’abbraccio, sembra abbia voluto dirci: “restiamo umani”. Dopo mesi e mesi di voce grossa, linguaggi e toni ai livelli più bassi, quasi il desiderio di una politica e prima ancora di una comunicazione politica capace di scaldare i cuori. Sì, proprio quella del Dolce Stil Novo. Probabilmente lasciata sul camper delle primarie e dimenticata in un angolo.

Salvatore D’Elia

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