Renzi e Obama, il medievale paradosso della contemporaneità
La vita ci riserva cose strane, e queste stranezze hanno la capacità di radicarsi nel nostro quotidiano con una inesorabile e sottile lentezza. Impercettibili sedimenti di “trasformazione” si accumulano e in men che non si dica ci ritroviamo in un’ insolita consuetudine, sovraffollata da una densa sensazione di profonda estraneità.
Nulla sembra mutare nei luoghi, negli incontri, negli spazi nei quali costruiamo le nostre sicurezze, perché – più semplicemente – è il paesaggio dei significati ad essersi radicalmente trasformato. Ci riscopriamo stranieri nel quotidiano, esuli del consueto, e – improvvisamente – nostalgici di una oltranza che solo fino a qualche istante prima era il nostro tempo, ammettendo con ottimistico beneficio d’inventario che il nostro tempo sia mai davvero esistito.
Al di là di ogni considerazione di merito sul viaggio di Renzi da Obama e indipendentemente da qualsiasi critica più o meno sarcastica in proposito, nell’osservare quell’incontro – con disinvolta e disinteressata distanza devo ammettere – mi sono visto proiettato in un tempo lontano, un tempo mai vissuto, solo studiato.
La piccola e insignificante corte di un inutile e ridicola provincia di un impero più vasto si incammina per ricevere benedizione e il benestare del sovrano.
La corte è quella che è, non si può pretendere troppo. Il Vassallo è già di suo un signorotto senza qualità né grazia. La pallida e ridicola ombra di un qualcosa che non c’è più, il demagogico e inadeguato depositario di una storia unica di cui ignora dignità e profondità, cultura e bellezza. In questo, ahinoi, non c’è niente di ridicolo, nulla qui è degno di satira, perché la satira muore nell’istante esatto in cui è il potere stesso a diventar giullare, quando diventa la goffa maschera di ciò che ha la pretestuosa boria di rappresentare.
Lo sfarzo, l’etichetta, il protocollo diventano a quel punto lussuose scenografie del ridicolo, l’eccessivo controcanto al nulla che le abita. Il grottesco stridere tra l’insignificanza degli attori e l’opulenza delle scene dice tutto. E’ quasi arte, un’arte di maniera, la cui potenza della pittura annichilisce un significato già morente. Troppo sfarzo, troppi giocolieri, nani e saltimbanchi nella scena, e così l’Ultima Cena del Veronese diventa la Cena in casa di Levi.
Il paesaggio dei significati si è trasformato per adattarsi al contesto: sovrano e vassallo si sono contornati di ospiti alla loro altezza, nessun filosofo o scienziato, nessun letterato potente e profondo, no … sarebbe stata un’arma a doppio taglio: la mediocrità al potere non può e non vuole esser messa in ombra, è molto più saggio e oculato attorniarsi di figure popolari ma innocue, utili e simpatici gregari d’occasione che mettano in risalto il più possibile (se è possibile) i legittimi dignitari del vuoto. Solo Cesare poteva permettersi di invitare a Roma Cicerone per godere dei suoi consigli. Solo i grandi non temono i grandi, anche se in evidente contrasto.
Questo tempo, il mio tempo, tutt’altro che d’improvviso è divenuto un altrove, la pessima imitazione di un medioevo rivitalizzato dal tempo reale, un grottesco capovolgimento della modernità che si mostra solo come un malato, pericoloso e anacronistico paradosso della contemporaneità.
fonte immagine: nulla di personale Twitter
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Il post non è male, pero più semplicemente ci vedo un cazzo con due coglioni e la chiuderei cosi.