Caro Matteo Renzi,
in questa pandemia mi sono trovata spesso a ringraziare di non essermi mai tesserata a nessun partito. E devo dire che, qualche tempo fa, ce l’avevi quasi fatta a convincermi. Maledetto accento toscano, che dà quell’aria scanzonata e affabile anche alle manovre di palazzo. Te lo dico dopo aver assistito atterrita al discorso che hai tenuto in Senato, caro Renzi, sui morti di Brescia e Bergamo che “se potessero parlare”, direbbero al Governo di riaprire. Ora: era proprio necessario quel passaggio? Con te, purtroppo è sempre come essere sulle montagne russe. Non sei come Salvini, che è sempre lanciato a 300 all’ora verso il fondo del barile. Tu, bisogna ammetterlo, ogni tanto dici qualcosa di intelligente e arrivi a tanto così dal convincermi. Poi, però, vuoi strafare e ti infiocchetti il tuo one man show. Può andare molto bene, ce lo hai dimostrato, ma può andare pure molto male.
Ricordi quest’estate?
A volte infatti ha funzionato: pensa a quest’estate, quando hai tuonato a Salvini “Questo non è il Papeete” dagli scranni di Palazzo Madama. Ci siamo esaltati tutti. Viva Matteo Renzi! Renzi liberatore della patria! Poi, però, è arrivato l’autunno, tu alle pizzate tra amici hai detto che è merito tuo, l’aver scongiurato l’aumento dell’Iva. Che Pd e Cinque Stelle governano con un esecutivo voluto da te. Sorrisi imbarazzati dei tuoi commensali, qualche pat pat sulla spalla. Non tutti infatti si sono accorti di quel ruolo chiave che ti piace tanto attribuirti: gli italiani nel frattempo pendevano della labbra di Beppe Conte. Mi sei passato un po’ in secondo piano, caro Matteo. Cosa fare quindi? Beh, per come si erano messe le cose nel Partito Democratico, fondare il tuo partito è stata una manovra obbligata, ma ma forse un po’ paracula. “Partecipo al governo con i Cinque Stelle? Voto contro? Lascio la politica? Prometto di lasciarla?”
“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Voi mi fate: “Michele vieni di là con noi, dai”, e io: “andate, andate, vi raggiungo dopo”
Dal film Ecce Bombo, Nanni Moretti, 1978
E vicino alla finestra ti ci sei messo davvero. Fai parte della maggioranza, ma sei sempre lì sul punto di uscire. Pesti i piedi, fai la tua sparata e torni lì in controluce. Solo che sai, Italia Viva, dopo gli entusiasmi iniziali, ora è ferma al 2,9% di gradimento nei sondaggi: per intenderci, se si votasse oggi, domani dovresti salutare Palazzo Madama e chiedere il reddito di cittadinanza.
Tutti contro il Governo
Adesso c’è pure la pandemia. E’ il momento di farsi sentire. La Calabria è contro il Governo, la Lega è contro il Governo, l’Anpi è contro il Governo. Pure la CEI. Da Nord a Sud fioccano critiche. Puoi salire anche tu sul carro degli antigovernativi, ma fortunatamente ti sei messo un promemoria: in questo Governo, come socio di minoranza, ci sei pure tu. E’ il momento di dissociarsi, stando comunque lì. Di venire alla festa, ma mettersi alla finestra, parlando male dei padroni di casa. Sei combattuto: devi tornare a far parlare di te, in qualche modo. Deve essere un intervento memorabile. O la va o la spacca.
Come nasce un discorso
Apri Word. “Discorso pandemia, Senato, 30 aprile 2020“. Vediamo un po’: deve essere un discorso contro il Governo, ma non sembrare un discorso contro il Governo. E’ la tua occasione per cazziare quel professorino senza troppo carisma che hai messo a Palazzo Chigi e che si è trasformato ne la Libertà che guida il popolo, ma con i capelli più in ordine. “Affermazioni forti, toni accesi, piglio appassionato”, ti appunti in un angolo. Di getto scrivi: “Da due mesi 60 milioni di italiani sono comprensibilmente in un regime – (bello “regime”, come ti è venuta?) che ricorda lo stato degli arresti domiciliari per un’esigenza sanitaria”.
Ok. E ora? Questo lo sappiamo tutti, ci vuole qualcosa di tagliente. Rivolgersi a Conte direttamente? Sì, per il nemico invisibile della pandemia la gente ha bisogno di un colpevole visibile e definito. E poi non ti sono ancora andate giù le tirate d’orecchio dei mesi scorsi. “Non usciremo – qui mettici una pausa strategica – da questa dinamica con un paternalismo populista“: paternalismo populista. Forte, forse un po’ alla Nichi Vendola, ma ci può stare. Fatto, ora passiamo all’attacco.
Tira in ballo le persone giuste
Fagli vedere che hai studiato: digli del DPCM che non può derogare alla Costituzione. Lo ha detto anche Marta Cartabia, presidente della Corte Costituzionale, mica Rocco Casalino. “Nemmeno durante il terrorismo”, bravo Matteo. Mostra tutta l’inadeguatezza del governo, cita quella roba improponibile sull’amicizia vera del Viceministro Sileri. Fa’ vedere che l’imperatore è nudo. Qui, Matteo, infervorati: bravo. L’Aula applaudirà. Se ti gira, ti puoi togliere pure quel sassolino dalla scarpa sul fatto che nessuno ti abbia mai detto “Grazie per aver cacciato Salvini”. Mettilo tra parentesi, vedrai al momento. In caso, ci vorrà una frase forte, una cosa come: “Non abbiamo impedito a Salvini di avere i pieni poteri, per darli a un altro”. Lì poi ti arrangi un po’ a braccio, Matteo. Devi essere sfrontato. Sottolinea a Conte quella roba frizzantina sulle dirette Facebook: dillo a lui per dirlo a Casalino, fagli capire che l’hai sgamato. Sbugiardalo di fronte a tutti: dillo che abbiamo un presidente del consiglio che fa le dirette in ritardo sui social per aumentare i follower nell’attesa.
Stai concentrato, l’attacco è a Conte
Rientra nei toni. “Presidente Conte – qui, guardalo dritto, Matteo, come se fossi ne “Gli occhi del cuore” – le rivolgerò un appello da parte della mia forza politica”. Uhm, un po’ deboluccio. Correggi: “Le rivolgerò un ultimo appello“. Ultimo, perfetto: come ultimatum. Si devono accorgere che col tuo 2,9% non si scherza. Un po’ improbabile, ma il tono farà il resto. Adesso, però, ammorbidisciti un pochino con Conte: “Non ho trovato in quello che lei ha detto cose non si possano sottoscrivere”: qui penserà che sei dalla sua parte. Questo Matteo è il tuo punto forte: il rassicurazionismo. Tu prima li rassicuri e poi li freghi, con la strategia dello “stai sereno” affinata nel corso del tempo e che trova il suo simbolo in un agnello sacrificale che si chiama Enrico Letta. Ah, anche quella volta: che tattica, che guizzo. Era san Valentino del 2014, due mesi dopo alle europee avresti preso il 40% con il Partito democratico.
Però non troppo
Ma non è l’ora della nostalgia. Stringi, Matteo: in Senato non abbiamo tutto ‘sto tempo. Finora sei stato trascinante, ma adesso rientra un po’ nel merito: non sei mica Salvini, in fondo. Devi rivedere quel passaggio sull’aprire tutto. Dov’era? Eccolo. Prenditi venti secondi di numero per dire che tu non intendi proprio riaprire tutto, che negli scorsi giorni ti hanno attribuito parole, opere e omissioni che non hai mai considerato e basta. Ma venti secondi contati, eh. Il discorso però ora sembra incentrato su Conte, maledizione. Non deve essere troppo protagonista, lo è già.
Un attimo: non hai ancora parlato del coronavirus, del dolore, della morte e della sofferenza. La gente è sensibile in questi giorni: “in casa è tutto amplificato”, si dice. Fai una bella tirata sul numero dei decessi. Niente comunicazione dei tecnicismi. Sei Renzi, mica Mario Monti: mettici il sentimento, parla degli anziani che sono morti da soli. Buttaci dentro la famiglia: bel passaggio, bravo, palpitante e appassionato. Ricordati la gestualità, è fondamentale. E adesso come finire? Cos’è che vuoi dire in sostanza? “Vogliamo riaprire ma gradualmente”? Ma che conclusione è? E’ debole. Non va bene: cancella. “Appoggiamo il governo, ma niente populismi”, sì, aggiungilo, ma altrove, altrimenti sembra una chiusura di Gianni Cuperlo.
Ci vuole più sentimento
Qui ci vuole qualcosa di più sferzante, che strizzi l’occhio al sentimentalismo. Domani devi essere su tutti i giornali. Riprendiamo quella cosa sui morti. Tiriamo in ballo Bergamo e Brescia, le città più colpite. Bergamo e Brescia, cosa possiamo dire? “Si odiano nel calcio, ma sono unite in questo triste destino?”: banale, da Baci Perugina. Non va bene, rischi di fare una comunicazione incentrata sull’unione. Un filo incoerente con la lavata di capo che stai facendo a Conte: se ne potrebbe accorgere persino Casalino. “Bergamo e Brescia, città di lavoratori e città di morti. I morti. Il sacrificio“: lavoriamo su questo. Inizi a girare per la stanza alla ricerca di un’idea, scrivi sulla lavagna che ti sei messo nello studio, come i geni visionari americani. Fai un brainstorming con te stesso, lo hai sempre fatto. Lo deve aver fatto anche il tuo amico Giachetti quando ha avuto la malsana idea di mettersi col Vangelo fuori dalla chiesa chiusa a favore di telecamera. Quella che ci ha fatto dire: “Ma in Italia Viva non hanno un amico?”: la comunicazione sta facendo un po’ acqua da tutte le parti, ma tu non sei Giachetti, sei Matteo Renzi e adesso devi parlare di morti.
I morti che parlano? Che grande idea
Rileggi, cancelli, risistemi. “I morti e riaprire le aziende, mah”. Non sei convinto Matteo, ma ci deve essere pur qualcosa che ci faccia tenere insieme i passaggi di ‘sto maledetto discorso. Quando si parla di morti si rischia sempre di essere indelicati. Poi l’illuminazione: “I morti se potessero parlare ci direbbero di aprire“: province laboriose, quelle di Bergamo e Brescia, potrebbe funzionare. Forse va un po’ sistemata, ma ce la butti lì. In mezzo al discorso, ti serve solo come frase di raccordo tra un punto e un altro: nessuno ci farà caso. E se la dicesse Salvini, quella frase? Beh, sicuramente solleverebbe un polverone, ma tu mica sei come quel bifolco populista, tu c’hai la superiorità morale. “Se i morti di Brescia e Bergamo potessero parlare”: se ci sarà tempo lo farai leggere a qualcuno. Ma sì, tutto sommato va bene. Alla fine la gente si concentrerà sulle cose che hai detto di Conte, sul regime, sulla Costituzione, sulle dirette Facebook. Chiudi citando un sempreverde Mino Martinazzoli, che dà sempre un certo tono al discorso. Hai finito, te lo rileggi, con un sorrisetto di autocompiacimento stampato sul volto. “Bello questo passaggio sui morti– dici tra te e te – domani ne parleranno tutti“.
Elisa Ghidini