Remedios Varo e i suoi quadri inquietanti e irrequieti, come quei sogni che si stagliano nella mente fino a sfumare, lasciando solo un ricordo e qualche palpitazione la mattina.
Lunga chiacchierata con Traveler sulla pazzia. Parlando dei sogni ci siamo accorti quasi immediatamente che certe strutture sognate potrebbero essere forme usuali di follia per poco che continuassero nello stato di veglia. Sognando ci è dato di esercitare gratis le nostre attitudini alla follia. Abbiamo anche il sospetto che qualsiasi follia sia un sogno che si è fissato.
Sapienza del popolo: <<È un povero pazzo, un sognatore…>>
Julio Cortàzar, “Rayuela, il gioco del mondo”
Maria de los Remedios Alicia Rodriga Varo y Uranga, nata ad Angles, in Spagna, nel 1908. La vita di questa donna è tanto curiosa quanto la sua carriera: nasce subito dopo la morte di sua sorella, cosa che spinse sua madre a darle proprio il nome di “Maria de los Remedios”, rimediando a una beffa del destino come i migliori supereroi possono fare: in maniera del tutto improvvisa. Il padre di Remedios era un intellettuale che ha sostenuto la carriera artistica della figlia fin dal principio, spingendola allo studio e donandole molteplici libri di narrativa. Grazie a questi Remedios sviluppa un forte interesse nei confronti della letteratura di Alexandre Dumas, Edgar Allan Poe e Jules Verne. Nel 1924 studia all‘Accademia di Belle Arti di San Fernando, a Madrid e successivamente si trasferisce a Parigi per sfuggire alla Guerra Civile spagnola. A Parigi l’aria è gonfia di surrealismo, il movimento artistico e letterario che vede André Breton tra i protagonisti, dal quale lei è fortemente influenzata per le sue opere.
Ma anche in quella permanenza la guerra sopraggiunge con l’avvento dell’occupazione nazista, costringendo Remedios all’esilio in Messico, dove diventa molto amica di Frida Kahlo e Diego Rivera. È in questo periodo, lungo tutti gli anni 50, che Remedios Varo sviluppa il suo stile caratteristico. Un’artista, lei, che ha concentrato diverse influenze intellettuali tutte nella sua pittura: artisticamente parlando, pittori come Pablo Picasso, Francisco Goya e Hieronymus Bosch hanno sancito il mix perfetto di tecnica e simbolo all’interno dei suoi quadri; la letteratura della sua infanzia ha lasciato un segno in quelle rappresentazioni a volte grottesche, spesso sinistre e inquietanti di personaggi dai volti pallidi e gli occhi enormi; filosoficamente, è stata influenzata sia dal misticismo orientale sia da quello occidentale.
Muore all’apice della sua carriera nel 1961.
Un calderone immenso di artisti che hanno sempre scavato l’inconscio per far emergere i tesori che abbiamo dentro: Poe e Goya, con la loro arte della paura e del grottesco; Breton e il suo surrealismo, che necessità delle più profonde radici dell’inconscio per avere un’espressione e Bosch, con le sue allegorie e il simbolismo di una realtà che ha sempre un secondo fondo da scoperchiare, invitandoci ad essere intraprendenti come Pandora davanti al vaso che mai avrebbe dovuto aprire.
I quadri di Varo sono tutti la perfetta sintesi di questi mondi: un surrealismo soave ma incisivo, impressionante sia per bellezza che per inquietudine. Qualunque opera surrealista necessita di molto tempo per essere osservata: elementi sovrapposti, mimetizzati, simboli e allegorie si profilano sempre per essere guardati una e due volte, costringendoci alla riflessione diretta, senza la quale non potremmo comprendere il tutto. Così accade anche in questi quadri, nei quali, osservando bene, scopriamo volti laddove non avremmo mai pensato ci fossero ed elementi che non potevamo immaginare. Perché sono indubbiamente surrealisti, così come ci aspettiamo da un quadro surrealista: da sogno o da incubo.
Così davanti ai suoi quadri ci ritroviamo davanti a delle porte oltre le quali ci aspettano personaggi a volte buffi, a volte brutti, certe volte poetici e altre paurosi. Personaggi che ci invitano dentro noi stessi, che sottolineano la nostra appartenenza a loro e viceversa.
Un sogno, un incubo, una veglia e, perché no, una realtà. Una realtà dentro la quale guardare e sentire, con un suono ovattato e un’eco sensibile: “non lo sai, ma ti aspettiamo”.
Gea Di Bella