Il caso Regeni è tutt’altro che chiuso e torna dirompente a scuotere l’attualità politica attraverso gli ultimi aggiornamenti portati alla luce dalle indagini in corso.
Le dichiarazioni dei genitori, in tono d’accusa, parlano di “professionisti della tortura”: i risultati dell’autopsia di fatto vedono l’incisione sul corpo di quattro o cinque lettere, una crudeltà che spinge gli occhi indietro nel tempo e nella storia, li rivolgono all’Inquisizione, portando alla luce un sadismo inquietante, un orrore che palesa l’assenza di incidenti più volte chiamati in causa. Così pare che i seviziatori abbiano voluto lasciare una firma a sangue freddo sul corpo del giovane ricercatore, “l’hanno usato come se fosse una lavagna”, delle parole che fanno pesare sempre più l’assenza di verità sul caso e mettono a dura prova la diplomazia italiana.
Ma facciamo un passo indietro, Giulio Regeni è un ricercatore italiano dell’Università di Cambridge, del Girton College per l’esattezza, che tra il gennaio e febbraio 2016, periodo all’interno del quale viene consumato il suo omicidio, si trova in Egitto per svolgere un’attività di studio inerente i sindacati indipendenti egiziani, presso l’Università Americana del Cairo. Giulio è giovane, un giovane appassionato e idealista, che nei suoi scritti descrive la difficile situazione di transizione dei sindacati dopo la rivoluzione egiziana del 2011.
È il 25 gennaio 2016 e Noura Wabby, studentessa e amica del dottorando, denuncia la scomparsa di Regeni sul proprio profilo Facebook. Tuttavia dovremo aspettare il 3 febbraio per il ritrovamento lungo la strada del deserto che collega Cairo ad Alessandria per avere notizie sul giovane: è in questa data che viene rinvenuto il corpo, mutilato e quasi totalmente denudato, deposto in un fosso.
E insieme al ritrovamento del corpo, nonché alle dichiarazioni del generale Khaled Shalabi che parla di “incidente stradale” che si apre il mistero, un mistero che si infittisce con il ritrovamento dei documenti ad opera della polizia egiziana nella dimora di una “banda specializzata in sequestri di stranieri”, elemento che ha destato non pochi dubbi e scarsa credibilità negli inquirenti italiani, circa soprattutto le responsabilità del governo nel consumarsi della tragedia.
È l’attività di ricerca di Regeni infatti la pista più accreditata, il movente che mette in serio imbarazzo il governo italiano, miglior patner commerciale in Europa per l’Egitto, che si vede costretto nell’assenza di informazioni e concreto supporto a limitare la scomoda patnership con un un governo che, tra l’altro ha conquistato un seggio al Comitato Diritti Umani ONU dal 2017 al 2021, un fiducia del tutto ingiustificata da parte della Comunità Internazionale visto l’insorgere di un caso tutto fuorché risolto, pieno di intrighi, di domande che non trovano risposte in chi di dovere, che getta un’ombra di dubbio non indifferente sulla valenza nel monitoraggio e l’effettiva competenza nel valutare il rispetto dei diritti civili e politici di un’organizzazione che sembra avviarsi inesorabilmente verso il fallimento, che ricorda tanto quella simbolica Società delle Nazioni creata al domani della Prima Guerra Mondiale, segnata dalla stasi decisionale.
Una riconferma del supposto fallimento segnata dalla “tutela” ingiustificata di un governo che se non è carnefice, con ogni probabilità, è custode di un segreto lacerante.
L’autopsia e le 221 pagine di relazione di Vittorio Fineschi, medico legale, già consulente nel Caso Cucchi ripropongono il caso nei termini dell’impossibilità a che si tratti di un incidente. La tortura nella sua definizione più rude, esattamente come l’intento di uccidere sono segni evidenti, innegabili, che vanno ben al di là dei tentativi di depistaggio messi in atto sin dal ritrovamento del cadavere.
Regeni ha le ossa rotte, i suoi denti sono spezzati, i segni di percosse ovunque presenti. La “firma”, poi, sulla regione dorsale, è la conferma dell’opera di professionisti della tortura.
Ma non è tutto. L’autopsia porta alla luce delle torture durante giorni, che hanno avuto luogo in tempi differenti, strazianti, brute, dense di tagli e bruciature.
Una morte violenta, dei depistaggi immorali e una verità ancora distante, ma necessaria. Perché Giulio vive, in ognuno di noi. Vive la voglia di ricercare la verità, vive l’ideale.
L’ideale di un mondo giusto non può morire ove l’ignoranza bruta della violenza è l’arma debole di chi vive una lercia menzogna.
Di Ilaria Piromalli