Due prospettive per il Referendum.
Tra accozzaglie e confronti poco edificanti, due posizioni differenti sul referendum del prossimo 4 dicembre.
Ilaria Piromalli
Caro lettore,
ti scrivo. Ti scrivo una lettera spassionata, un po’ da ultima romantica, un po’ da folle amante di quella politica che chissà perché mi ha fatto innamorare sin dai primi anni della mia vita, e lo faccio per parlarti di referendum nella maniera che più mi è cara.
Sia ben chiaro, la mia lettera non è un invito, non è una richiesta, ma un semplice racconto di una passione folle da cui nasce un’idea.
Così, abbandonando i tecnicismi e le polemiche a cui negli ultimi mesi inevitabilmente avrai assistito, ho deciso di dedicarti un pensiero.
Quando nel 1946 vi fu il referendum che decretò la scelta del popolo italiano della repubblica, fu un giorno di festa. Io nel mio piccolo avevo la ferma immagine che Verga nella novella “Libertà” ci ha donato attraverso la potenza espressiva della letteratura.
“Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà!”.
Era la vittoria della sovranità popolare, della possibilità di scegliere data a tutti indipendentemente da cosa fossero e cosa facessero nella vita. Io scelgo perché faccio parte di un insieme che mi appartiene, che mi rappresenta e che vuole sentire la mia voce in un qualche modo.
Nacque da lì una Costituzione politica. Una Costituzione orientata, che disprezza il fascismo e ripudia la guerra, che discernendo, nella storia ha elevato la democrazia, fondando la repubblica sul lavoro.
L’elemento civilizzatore fu per alcuni il fondamento del lavoro. E questo perché la Costituente che nasceva dal Comitato di Liberazione Nazionale, dopo la tragica esperienza del fascismo che condusse alla guerra, voleva fondare l’Italia distrutta sulla partecipazione di tutti coloro i quali avrebbero contribuito al benessere economico, politico e sociale del Paese.
E se “libertà è partecipazione”, come cantava Gaber, puoi capire bene, caro lettore, come in realtà questa genesi abbia al suo interno un elemento poetico quasi: la felicità.
Sai, solo una Costituzione al mondo parla esplicitamente di felicità, ed è quella americana. Una Costituzione che ha 227 anni alle spalle, ben più vecchia della nostra, e che tuttavia non è stata mai modificata nel tempo, se non in 27 emendamenti. Come si potrebbe mai cambiare una Carta che si fonda sulla felicità?
Quel che incuriosisce di più è che uno degli emendamenti che furono cambiati, riguardava per l’appunto il Senato: a un Senato dei nominati, non molto diverso da quello delle autonomie che la riforma Costituzionale vorrebbe inserire, veniva preferito un Senato elettivo, quello che la nostra Costituzione già ha.
Perché “libertà”, ancora una volta, “è partecipazione.”
Con gli anni, una professoressa di Lettere insegnò a me e ad altri che quando si parlava di Costituzione ci si riferiva alla Legge fondamentale dello stato, “la dovete tenere sul comodino la Costituzione, che è la Bibbia laica dello stato”.
Tuttavia la Costituzione per me non è mai stata una legge, ma l’espressione più pura di un’idea, un’idea politica, le cui radici sono rintracciabili in quell’espressione che lega il diritto alla poesia, attraverso il cittadino.
Ogni cosa fu messa al suo posto superando i tempi e la storia. Caro lettore, mentre ti scrivo, penso a un libro di Stefano Benni. Si intitola “Saltatempo”. C’è all’interno una meravigliosa disamina sulla memoria che vorrei condividere con te e fa più o meno così:
“Ma la memoria non è fatta solo di giuramenti, parole e lapidi, è fatta di gesti che si ripetono ogni mattino del mondo. E il mondo che vogliamo noi va salvato ogni giorno, nutrito, tenuto vivo. Basta mollare un attimo e tutto va in rovina”.
Sai, mio adorato lettore, il mio amore per la politica è nato insieme a quello per la letteratura, perché entrambe nascono da un’ideale. E cosa è una vita senza ideali? Io la volevo piena, non vuota, a costo di sentirmi un po’ Don Chisciotte e gridare contro dei mulini a vento.
L’ideale è elevazione, nutrimento per l’anima. Per questo nasce la Costituzione, per conservare un’ideale, puro e semplice, che dall’astrazione legale potesse estrapolare un diritto che salta il tempo.
Se ci pensi, caro lettore, è la più bella storia d’amore che si possa mai raccontare, quella che lega un popolo a un’idea.
Quello che ignori, inconsapevolmente, è che l’Italia tuttavia ebbe un’altra Costituzione prima del ’48. Ne avrai sentito sicuramente parlare, si chiamava “Statuto Albertino” e altro non era che la legge alla base della monarchia sabauda. Sì, quella monarchia che noi il ’46 ripudiammo.
Vedi, lettore, lo Statuto Albertino non fu altro che un’evoluzione della monarchia italiana, una costituzione che comunque accentrava il potere nelle mani di pochi, che garantiva “stabilità e forza”, due aggettivi che ultimamente avrai sentito ripetere molto dalla retorica politica, per dare una forma più liberale allo stato. Una libertà “protetta da un filo spinato”, non certo la celebrazione alla partecipazione che la nostra preferisce.
Lo Statuto Albertino guardava alla distinzione tra re e sudditi e, sai lettore, volle creare anche un Senato, un Senato che “avrebbe dovuto appianare i contrasti tra il re e la Camera dei deputati”, ma che in realtà condusse a un regime a due soggetti, re e Camera dei Deputati, e questo a causa della sua composizione, fatta da notabili (vescovi, alti funzionari, nobili) nominati dal re, la cui influenza sociale non era più idonea ai tempi.
Quel senato dei nominati, molto simile a quello delle autonomie, non aveva ragion d’essere e anziché portare a un progresso, produsse un nulla di fatto.
Quello dello Statuto Albertino era uno stato accentrato, che purtroppo portò a tanti ritardi in particolare nel Meridione.
Avrai sentito parlato di mancata distribuzione equa delle risorse. Funziona un po’ così, diciamo che io, stato, ho una torta da distribuire tra più regioni: ad alcune ne do di più ad altre meno. Ed elargendo democrazia invece divento il responsabile di un sistema iniquo.
Da lì la scelta di decentrare sempre più il potere, per favorire un sistema che garantisse tutti e non pochi. Per garantire un sistema democratico e non oligopolistico. Per garantire la partecipazione che è un po’ la parola chiave in tutto questa cronistoria dell’ideale.
Caro lettore, ti ho parlato del mio amore, ma non ti ho ancora spiegato il perché. Mi sono innamorata della politica non appena ho capito quanto attraverso la garanzia della partecipazione si possa essere liberi e artefici di qualcosa di grande.
Alla fine di questo breve viaggio attraverso la storia e i significati, contestualizzando e leggendo questa riforma, ho scelto di votare no e di condividere con te questo mio percorso.
Perché voglio l’equità e avere la possibilità di scelta, che è tutto ciò che mi rimane. E che anche a te, adorato lettore, rimane.
Forse avresti preferito una storia d’amore diversa, senza notare che sin dall’incipit ho parlato del mio amore per Lei, la Costituzione della Repubblica Italiana, per Lei, la libertà, per Lei, la partecipazione, per Lei, la politica, quando rappresenta tutto quel di cui ho parlato. E del suo amore per Lui, il popolo, che nella sua costruzione, ha servito e garantito negli ultimi 68 anni.
Elisa Bellino
Benvenuti nell’epoca dei grandi cambiamenti.
Un luogo truce e oscuro, senza certezze né colori e arcobaleni; solo tante tazzine di caffè, abbandonate sui tavolini di un Paese, che ormai trasuda adrenalina, veleno, e tanti paradossi.
La verità è che questo referendum ci ha preso un po’ troppo la mano, e noi non sappiamo più se porgere l’altra, un po’ sporca di ipocrisia, paura, o semplice, ingenua ignoranza.
Il fatto è che ci troviamo di fronte a realtà talmente nude da ustionarci il viso pulito, vivide e anche un po’ livide, tanto da inquinare i nostri buoni preconcetti, già abbondantemente conditi e messi sottovuoto almeno un decennio fa.
Domenica 4 Dicembre siamo chiamati al voto, e, esattamente come accadde il 18 Aprile del 1948, sarà un passaggio elettorale fondamentale della storia italiana.
Le controversie sono tante, naturalmente, e, come recita un articolo di Antonio Polito, edito sul “Corriere della Sera” del 20 Novembre scorso:
“Non c’è dubbio che il cuore politico della battaglia in corso sarà il giudizio dell’intero operato del governo, che porta ormai evidenti segni di affaticamento dell’età, mille giorni di carica”.
Non vi è inoltre alcuna incertezza nell’affermare che ci troviamo in un’epoca di estrema transizione, pazza e sconsiderata, il popolo freme e versa, ogni tanto, qualche lacrima di crisi, ben nascosto dietro a sanguinose e inarrestabili battaglie, dove cavalli e cavalieri assumono le sembianze di 21 tasti di un pc. Le dita scorrono leste mentre le menti indietreggiano, temendo di aver appena twittato l’Apocalisse imminente.
Ma quando si parla di politica si dovrebbe raccontare la storia della democrazia, e questo sentimento, questa massima rappresentazione di ognuno di noi, non si fa certo su twitter.
Il referendum è una faglia vivente, un vortice di follie e ossessioni, dove da una parte all’altra, in entrambi gli schieramenti, del Si e del No, si rasenta l’assurdo, l’ipocrisia, la menzogna ben raccontata, l’ignoranza e la disperazione.
Era davvero necessario accompagnare il cittadino italiano verso la valle oscura della schizofrenia, riducendo la campagna politica ad una mera battaglia di polemiche a fior di pelle, sotto la pelle, all’interno del tessuto osseo, addirittura nelle viscere di un Paese, ormai spaccato in due, e trasudante di odio e disprezzo?
Vittorio Fao spiegava:
“L’assurdità è pensare di unire diverse realtà malate che non possono guarire sommandosi tra di loro così come sono, ma solo cambiando se stesse”.
Non è importante cosa uscirà dalla scatola magica il 4 Dicembre; non è importante se prevarrà il Si o il No. E’ fondamentale capire che il Referendum è costituzionale, per tanto non si vota in base a quale orientamento politico si simpatizza, ma in base alla nostra volontà di approvare o meno una Riforma. Non è significativo il lato che si sceglie di abbracciare, ma è essenziale pensare non al voto di colore ma di correttezza, in quanto cittadini italiani.
Nessuno sa cosa accadrà dopo, né come finirà l’estenuante battaglia; non possiamo conoscere l’esito del nostro futuro, né se assaggeremo l’inferno oppure il placido purgatorio.
La riforma costituzionale non sarà di certo la bacchetta magica che risolverà tutti i nostri patemi esistenziali; non abolirà la povertà, non guarirà le nostre ferite, né le piaghe di un’Italia ora più che mai sofferente. Sarà soltanto un’umile cassetta degli attrezzi, che tenterà di donare un’identità ad un Paese che sprofonda nel caos, diviso da una sinistra che non si fa più vedere, e una destra frammentata e belligerante, dove un Berlusconi ottantenne ancora tenta di salpare a bordo.
Viviamo nell’epoca delle post verità, dove il vocabolario ha perso ogni importanza; si parla per immagini, per video, propaganda mediatica, terrore. Ecco, il terrore spesso parla più di altri.
Ma se la sinistra e la destra hanno perso le parole, di cosa stiamo ancora parlando?
Ed ecco che, giunti al valico che dovrebbe rappresentare la Bridjet Jones della rinascita nazionale, ci ritroviamo paralizzati in luoghi comuni, affoghiamo in errori abituali, stantii, che ormai annoiano anche lo sguardo. Ci troviamo a rigirarci tra le dita nervose, annerite dal catrame di troppe sigarette, due palline di gomma, raffiguranti i faccioni di Renzi e Grillo. E la Boschi, Salvini, Berlusconi, e altri personaggi mediatici, addosso i quali sfoghiamo le nostre maggiori frustrazioni.
“Non ha senso continuare a sfogliare la margherita per individuare la personalità a cui affidare il ruolo di candidato premier, se prima non si definisce un‘identità culturale e programmatica di ciò che sarà il nostro governo”.
Abbiamo votato Renzi, e ci è andato bene finchè prometteva un cambiamento, un’inversione di rotta, un giro di boa. Adesso che ci troviamo faccia a faccia con la possibilità di una vera metamorfosi, vi pare logico affrontare un incredibile ed improbabile sentimento di patriottismo costituzionale? Lo so, le motivazioni che si leggono quotidianamente, scorrendo la Home dei social, per il Si e per il No, meriterebbero il premio per l’inventiva.
Siamo stagnati in un gigantesco Grand Canyon dalla geografia inesplorata ed oscura, con le gambe a mollo in un torrente paludoso. Attorno a noi crisi d’identità, economia al collasso, povertà, immigrazione, emergenza ambientale.
Rappresentiamo le fondamenta di un Paese diviso in due dal terremoto; cosa ci trattiene ancora dal tornare uniti, e ricostruire, mattone dopo mattone, la nostra identità nazionale?
Fonti: _Antonio Polito, Corriere della Sera, “Paradossi della sfida di Dicembre”
_ Ezio Mauro, La Repubblica, “La sottile linea rossa”