In Turchia, tra un nuovo accordo internazionale e un Döner Kebap, mancano poche settimane al referendum che si terrà il prossimo mese, i funzionari dell’opposizione turca avvertono di una campagna di oppressioni e intimidazioni da parte del governo, a favore di un sistema presidenziale che concederà ampi poteri al presidente Recep Tayyip Erdoğan.
La moderazione del dibattito sul voto ha lasciato spazio a un’ondata di arresti di parlamentari dell’opposizione, attivisti e giornalisti, oltre che alla chiusura dei mezzi di comunicazione. L’opposizione ha anche sottolineato come il partito conservatore turco (AKP), principale partito del Paese con presidente Binali Yildırim e fondatore lo stesso Erdoğan, stia operando anche attraverso il supporto verso gruppi terroristici come Stato islamico.
Il laico Bariş Yarkadaş, esponente del Partito Popolare Repubblicano (CHP), continua a dichiarare la totale assenza di democrazia nel paese, affermando: “nelle democrazie le persone possono scegliere quello che vogliono, ma in questo momento, il diritto dei cittadini di scegliere è completamente deviato perché hanno la possibilità di sentire una sola voce, quella di Erdoğan”.
Giusto soffermarsi brevemente sui punti cardine di questo referendum. Il referendum del prossimo 16 aprile è diffusamente visto come un voto sulla leadership di Erdoğan. In caso della vittoria del SI, i cambiamenti permetteranno al presidente di partecipare alla vita politica del paese per altri due mandati, e potenzialmente, tenerlo al potere fino al 2029 (Erdoğan avrà 75 anni). Le modifiche costituzionali includono anche l’aumento del numero dei parlamentari e l’abolizione il ruolo di primo ministro, permettendo al presidente di creare un consiglio dei ministri che avrà poco controllo quasi nulla da parte del Parlamento.
I critici temono che la Turchia possa diventare un paese sotto il dominio di un unico uomo, con il potere concentrato nelle mani di Erdoğan, lamentano oppressione su larga scala in un paese disfatto da una serie di attacchi terroristici e rivolte come il famoso tentativo del colpo di stato dello scorso luglio.
Unica sostanziale alternativa al “SI” di Erdoğan sarebbe stata, forse, quella che porta a Selahattin Demirtaş, carismatico politico curdo (HDP) che dallo scorso novembre è rinchiuso in carcere per aver argomentato duramente l’immorale sistema presidenziale costruito da Erdoğan (recentemente condannato ad altri 5 mesi di carcere per motivi non molto chiari).
Difficile parlare di opposizione politica turca se si considerano i pochi sbocchi mediatici che questi gruppi istituzionali hanno a disposizione per discutere le proprie teorie. Dopo il recente tentativo di colpo di stato, 152 giornalisti sono finiti in carcere, Più di 170 attività collegate ai mass media sono state chiuse e 2.500 giornalisti sono stati licenziati.
Lo scontro politico turco si muove attualmente su binari rappresentati da sussurri, forse, destinati a lasciar spazio a un silenzio che difficilmente sarà laconico e senza ripercussioni per la coscienza e la moralità umana.