Reddito di Base Universale: utopia o soluzione?

Un'esplorazione delle radici storiche e delle potenzialità economiche e sociali di una misura tanto discussa quanto rivoluzionaria

Disuguaglianze tra ricchi e poveri; Reddito di Base Universale

Il Reddito di Base Universale è una cifra di denaro versata regolarmente agli abitanti di una comunità, senza alcun tipo di condizione per “meritarla”. Prende forme diverse a seconda del contesto storico e geografico di appartenenza ma non è niente di nuovo, se ne discute da secoli.

Quando se ne sente parlare per la prima volta, il pensiero è: “ecco un’altra utopia irrealizzabile”, ma basta guardare un po’ più a fondo per capire che, nel contesto attuale, potrebbe essere una delle poche soluzioni rimaste.

Cos’è il Reddito di Base Universale

Il Reddito di Base Universale è una cifra di denaro versata regolarmente a tutti gli abitanti di una comunità. I modelli variano a seconda della proposta e del contesto di applicazione, ma hanno in comune alcuni pilastri di base:

Fissate queste premesse, di solito le reazioni sono tre: “ecco una nuova utopia irrealistica della sinistra per ottenere i voti dei fannulloni”, “sì bello, ma dove troviamo i soldi?”, “ma sei matta? Così non lavorerebbe più nessuno”.

In questo articolo cercheremo di rispondere a queste obiezioni. Di fare chiarezza su una misura largamente incompresa in Italia, dove il dibattito si trova in ritardo rispetto al resto del mondo.

Il Reddito di Base Universale è un’idea nuova?

No, l’idea non è affatto nuova. I primi riferimenti a una forma di sussistenza per i cittadini risalgono al 1500, ma è solo nei secoli successivi che la proposta si struttura in maniera simile a quella attuale.

Nel 1797 Thomas Paine, filosofo angloamericano e Thomas Spence, politico radicale inglese, proposero una prima forma di reddito di base. Per i due intellettuali le ricchezze prodotte dalla terra non potevano essere sfruttate dal singolo, ma redistribuite a tutti i legittimi proprietari: i cittadini.

Sulla base di questa idea si sviluppò il Georgismo (o Geoismo), una filosofia politica secondo cui ogni cosa che si trova in natura appartiene all’umanità intera. Su questo principio in Alaska è stata adottata una forma di Reddito di Base Universale, finanziato dai ricavi delle industrie minerarie e petrolifere.

Dopo la prima guerra mondiale è Bertrand Russell a riproporre l’idea nel dibattito politico inglese. La sua proposta mira a tenere insieme socialismo e liberalismo. Per Russell la spinta creativa del capitalismo va mantenuta, ma si deve rinnegare la brama di possesso che accompagna la crescita economica delle società più avanzate. La soluzione per vestire di umanità l’accumulo di capitale è nel condividerne una parte.

Nel 1934, negli Stati Uniti, il senatore Huey Long propone il programma Share the Wealth (condivisione della ricchezza). Dovrebbe diventare il punto principale della sua campagna presidenziale, ma verrà assassinato prima di iniziarla.

È però negli anni ’60 e ’70 che il Reddito di Base Universale inizia a intrecciarsi con le lotte dei movimenti sociali. Per il femminismo è uno strumento di emancipazione fondamentale per le donne; per Martin Luther King è la soluzione per colmare il divario economico tra bianchi neri.

È in questo periodo che la misura riceve finalmente l’attenzione mediatica e del grande pubblico. Non sono solo le sinistre a vederne i benefici come strumento di equità e giustizia, ma anche i gruppi conservatori e liberali. Questi ultimi lo considerano un modo per rendere la società più sicura, per limitare le intromissioni dello Stato e per rendere più efficiente la spesa per il welfare.

Il Reddito di Base Universale è sostenibile dal punto di vista finanziario?

Sì, tutto molto bello. Ma i soldi?




Prima di tutto, vista la natura universale e incondizionata del Reddito, si eliminerebbe l’apparato burocratico preposto al controllo e alla selezione dei beneficiari. Al momento, per ottenere un sussidio di disoccupazione o di invalidità si deve passare per una lunga trafila di pratiche e verifiche, con conseguenti costi per lo Stato. Costi per il personale che si occupa delle pratiche, costi per le verifiche, costi per le eventuali frodi. Tempo e denaro che vengono investiti affinché una minima parte della popolazione goda di un suo diritto universale: una vita dignitosa. Il taglio di questi costi contribuirebbe al finanziamento del Reddito per tutti.

Altre fonti di finanziamento proposte sono la tassazione dei grandi patrimoni personali (per intenderci quelli dei miliardari, non dei piccoli e medi risparmiatori), dei ricavi delle multinazionali e dei grandi inquinatori (carbon-tax).

C’è poi l’aspetto del risparmio su altre voci di spesa. Sono cifre difficili da prevedere e calcolare, ma i sostenitori del Reddito di Base prevedono risparmi in materia di giustizia, sicurezza e di salute pubblica; con conseguente aumento della produttività. Il presupposto alla base è che la povertà costa. Non solo a chi la subisce, ma alla collettività.

Da situazioni di degrado economico derivano un gran numero di reati e, ipoteticamente, il Reddito potrebbe diminuire i crimini di lieve entità come piccoli furti e spaccio di strada. Con conseguente risparmio di risorse da parte della polizia, dei tribunali, del sistema carcerario.

La povertà influisce sulla salute mentale e fisica: stress, depressione, cattiva alimentazione. Fattori che hanno una ricaduta sulle casse dello Stato ma che potrebbero essere limitati a monte, riducendo la povertà.

La produttività generale a lungo termine sarebbe incentivata grazie a una popolazione che non lavora più per sopravvivere, ma che può dedicarsi all’istruzione, al rischio imprenditoriale, all’innovazione. Insomma, si investe un capitale monetario per avere un ritorno in capitale umano che, a lungo andare, produce di nuovo capitale monetario.

Reddito di Base Universale: le obiezioni morali

Sarebbe “giusto” dare dei soldi a tutti senza un ritorno per la collettività? Le obiezioni morali al Reddito Universale muovono tutte da una concezione del lavoro come nucleo fondante dell’identità. Ma non contribuisce forse alla società una madre che si prende cura dei figli? Una persona che fa volontariato? Un figlio che si occupa dei genitori anziani? La società civile si è presa cura di se stessa per secoli, anche senza un ritorno economico. Il Reddito Universale garantirebbe a tutti la soglia minima di sopravvivenza, senza intaccare l’incentivo al lavoro per coloro che vogliono di più. Porrebbe anzi un freno allo sfruttamento e al lavoro povero.

Un’altra obiezione è la presunta ingiustizia nel dare a tutti, a prescindere dal reale bisogno, la stessa cifra. La risposta è semplice: la tassazione progressiva. Coloro che non ne hanno bisogno, grazie ad altre forme di sostentamento, restituiranno il Reddito tramite la dichiarazione dei redditi.

Le obiezioni morali non prendono in considerazione i cambiamenti del mercato del lavoro, la popolazione mondiale che aumenta, l’aspettativa di vita che si prolunga, l’automazione e lo sviluppo tecnologico, l’occupazione femminile in crescita. È impensabile credere che tutti riusciranno a trovare un’occupazione, così come è impensabile credere che la sopravvivenza debba essere meritata.

In un mondo in cui si è prodotta così tanta ricchezza dallo sfruttamento delle risorse naturali e dal lavoro delle fasce più deboli, immaginare modi per condividere questa ricchezza non dovrebbe essere considerata un’utopia, ma una proposta da prendere in considerazione.

Il Reddito di Base Universale è mai stato testato?

I progetti pilota nel mondo sono stati tantissimi dagli anni ’70 a oggi. In un villaggio in Namibia, nel 2008, è stata fatta una prova di un anno con risultati promettenti. C’è stata una diminuzione della malnutrizione dei bambini e un aumento della loro presenza a scuola. Gli abitanti del villaggio hanno reinvestito il denaro creando lavoro e facendo muovere l’economia e i reati sono diminuiti del 42%.

In Canada il Reddito di Base Universale è stato testato per ben due volte. La più recente, nel 2017, è finita in tribunale. A un anno dall’inizio del progetto i governi locali sono passati ai Conservatori, che hanno tagliato la sperimentazione con la scusa dell’abbandono del lavoro da parte dei beneficiari. Tuttavia, mancano i dati ufficiali per trarre conclusioni di qualunque tipo e i cittadini si sono uniti in una class action contro gli amministratori locali responsabili dei tagli.

Il primo esperimento canadese risale al 1974-79 e ha registrato una diminuzione delle ospedalizzazioni e dell’abbandono scolastico, in linea con i risultati africani e con le ipotesi dei sostenitori del Reddito.

Svariati gli esperimenti negli USA, anche se limitati nel tempo e nel numero di soggetti coinvolti. In Alaska c’è stato un imprevedibile aumento della fertilità e nessuna diminuzione dell’occupazione retribuita; in Nord Carolina la tribù degli Cherokee oggetto della sperimentazione ha visto la propria salute mentale migliorare, le dipendenze e i crimini diminuire e nessun cambiamento sui livelli di occupazione.

In Europa hanno provato la Finlandia, la Germania, la Spagna e l’Olanda con risultati in linea con le aspettative: miglioramento della salute mentale, fioritura personale, maggior fiducia nelle istituzioni e nel prossimo.

Va evidenziato che si tratta di esperimenti limitati, spesso finanziati dal settore privato, che non possono produrre dati affidabili sull’effettiva attuabilità del Reddito di Base Universale. Mostrano però come le obiezioni morali siano più pregiudizi che preoccupazioni fondate.

Il Reddito di Base Universale è una proposta molto meno radicale di quello che può sembrare a prima vista. In Italia se ne parla poco e male, ma il dibattito nel resto del mondo è acceso e vivace. Sono molte le proposte politiche concrete per implementarlo, soprattutto dopo la pandemia e la diffusione delle intelligenze artificiali generative. Se il progresso tecnologico farà diminuire l’occupazione, si impone sin da ora una revisione totale del concetto stesso di lavoro e di sostentamento. E il Reddito Universale potrebbe essere parte della soluzione.

Sara Pierri

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