E se per una volta si capovolgesse il ruolo e si recensisse il pubblico durante uno spettacolo? Il web ha soverchiato il limes di chi si possa esprimere o meno in merito a tutto lo scibile e il ponderabile umano oramai. Un duello di recensioni basate sull’iper-soggettività e autoreferenzialità. E lo spettatore che legge, che osserva un concerto o, nello specifico, in questo frammento personale, che è platea durante una rappresentazione?
Su il sipario. Va in scena l’ultima replica romana di Delitto/Castigo con il binomio Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio, per poi proseguire il tour nel tacco pugliese.
Dall’inizio già la consacrazione, l’atmosfera già acquiescente. A ogni accenno o amo gettato il placet del pubblico è già certo. La policy del “sentito dire” ha già sortito i suoi effetti; la predisposizione d’animo è già fatto compiuto. Lo spettatore non si pone come tabula rasa con l’emozione caratteristica di “non” sapere cosa vada a vedere. E’ già tutto contemplato nello stato d’animo onnicomprensivo del partecipare a un evento (in questo caso “sold out”).
Pagina dopo pagina scorre la riduzione a romanzo di Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij, in cui Rubini (io narrante) opta per una netta caratterizzazione della panoplia dei personaggi descritti nell’opera. Questo facilita il seguire da parte dello spettatore, che ossequia i cambi immagine, e scolasticizza la trama rendendola accessibile. Questo meccanismo è già prestabilito a priori, quindi il pubblico anela a essere indottrinato e mai cade in fallacia.
Come una sovrastruttura, una macchina già rodata. E l’elemento imprevisto che Edoardo de Filippo considera elemento portante dell’universo della finzione? Non è solo parte del dramma, ma è anche confacente al pubblico. La risposta di quest’ultimo è latente. Osservare uno spettacolo è, rispettando il filtro tra l’attore e l’alter, un ruolo attivo. Nei tempi scenici, nell’alternarsi dei tempi di battuta, il respiro della platea è l’accordatura della tonalità in chiave. Piccola chiosa personale: io mi sentivo ribollire quando Lo Cascio vituperava Rodion Romanovič Raskol’nikov impersonandolo in modo forzato e ansimante. Mentre plaudivo Rubini nella sua professionalità e ironia. E mi sarei congedata volentieri all’apparizione di Sonja che, invece che alla redenzione, avrebbe condotto alla perdizione ogni essere umano, appena ascoltata la sua interpretazione imbarazzante. Le emozioni sono eterogenee.
In finis, come da copione, il pubblico osanna Lo Cascio, saltellante dal giubilo, e plaude, ma ben più timidamente, Rubini. Altro che “la meglio gioventù”, meglio la vecchia!
Giù il sipario.