Oggigiorno, pare assodato che il razzismo sia l’atteggiamento intellettuale miope di persone che si presumono “arretrate” o “provinciali”. Ma qual è stata (anzi, qual è) la reale forza delle sue radici culturali? Se ne è occupato Marco Marsilio: un laureato in filosofia, che l’esperienza di consigliere comunale a Roma ha “costretto” ad affrontare le questioni dell’integrazione etnica e dei conflitti di civiltà.
L’ha fatto in un saggio che ha causato polemiche su blog e social network, a causa del titolo: Razzismo: un’origine illuminista (Firenze 2006, Vallecchi). Al contrario di quanto ha insinuato qualcuno, Marsilio non ignora affatto la xenofobia degli antichi, o le responsabilità storiche del Cristianesimo in fatto di antigiudaismo e maledizione dei “camiti”. Il suo saggio si concentra, però, su un peculiare tipo di razzismo: quello legato alla visione dell’essere umano come mero “composto” di caratteri biologicamente ereditari (inclusi quelli della personalità).
Come tale, esso sarebbe stato inconcepibile, senza la separazione fra antropologia e storia biblica (che presumeva l’umanità come nata da un antenato comune) e senza lo sviluppo delle scienze naturali conosciuto in età moderna.
“Come abbiamo potuto osservare nel capitolo precedente, occorre fare attenzione nel definire sic et simpliciter ‘razzista’ il pensiero dei primi illuministi. Non tutti i teorici illuministi della nuova idea di razza erano tali. Alcuni usavano il termine ‘razza’ e i suoi derivati in senso puramente descrittivo dal punto di vista antropologico, senza alcun giudizio di valore. Ciò che fonda il virulento razzismo del secolo XIX è la tassonomica classificazione della ‘fissità della specie’ in relazione ai diversi gruppi umani, con la quale l’illuminismo (o meglio, una sua parte) sostituisce l’antica visione cristiana dell’unità della specie umana. La convinzione di una fissità biologica, inalterabile, delle differenze umane, unita ad un giudizio di valore etico e morale (‘superiore’, ‘inferiore’), diventa il criterio decisivo e fornisce l’argomento chiave al razzismo moderno e alla sua propagazione.” (Op. cit., p. 43)
Oltre alla classificazione delle differenze biologiche all’interno del genere umano, un’altra scoperta (finesettecentesca) fu ideologizzata in senso razzista: quella dell’affinità fra greco, latino e sanscrito, che portò a definire la famiglia linguistica indoeuropea. Di essa, sia pure più lontanamente, avrebbero fatto parte anche il gotico e il celtico. Il sanscrito codificava un mondo spirituale più antico e articolato di quello giudaico-cristiano, facendo così ulteriormente vacillare una visione biblico-centrica della storia universale.
La parentela del sanscrito con le lingue antiche d’Europa fece nascere il mito di una “parentela” anche in senso culturale e biologico, che avrebbe distinto “una razza superiore” da tutte le altre. Questo non era condiviso dall’inglese William Jones (1746-1794), il filologo che notò per primo la famosa somiglianza fra gli idiomi poi detti indoeuropei. Ma non si poté evitare che la letteratura popolare e le pubblicazioni divulgative diffondessero il termine di “ariani”. Nel 1819, F. Schlegel conferì al termine il significato generico che ha tutt’oggi. Si affermò così, nella terminologia, il dualismo “ariani-semiti”.
A questo, si aggiunga l’effettiva situazione socioeconomica tra XVIII e XIX sec., in cui era “normale” (per esempio) che la forza-lavoro fosse data da schiavi d’origine africana. Ciò valeva soprattutto per il sud degli Stati Uniti.
A difendere su base “scientifica” lo status quo sarà Samuel George Morton (1799-1851). Egli possedeva una collezione personale di oltre mille crani umani. Effettuò misurazioni su di essi e le registrò in tre tabelle, in cui stabiliva una gerarchia fra le razze (più o meno “intelligenti”), in base alle dimensioni dei crani.
Peccato che il parallelo fra volume della testa e intelligenza fosse quantomeno opinabile: perché non stabilire, allora, che gli elefanti sono superiori agli uomini, dato che hanno un encefalo più grosso? Oltretutto, Morton alterò dati e misurazioni, in base al proprio pregiudizio.
Cosa ci insegnano queste e altre osservazioni di Marsilio? Che il nazismo non fu una piega culturale imprevista, ma lungamente preparata. Poi, che il mito della conoscenza e dell’intelligenza “oggettive” è, per l’appunto, un mito. Dietro la conoscenza, c’è un “conoscente”, col suo bagaglio d’esperienze, i suoi parametri culturali, i suoi interessi economici e i suoi equilibri esistenziali: i quali incidono non poco sulla formulazione delle nozioni di “verità”.
È impossibile eliminare totalmente i condizionamenti pregiudiziali, ma si può permetterne il graduale e perenne superamento. Più che di relativismo, dovremmo parlare di dialettica e multidisciplinarietà: osservare il contesto storico-culturale in cui nasce una teoria scientifica aiuta a valutarne il contenuto.
Va di moda giustificare relativisticamente il rifugio in concezioni dogmatiche (“se nessuno ha ragione, nessuno può smentire le presunte certezze di parte”) o di comodo (“posso credere a quel che piace a me, o ignorare quel che mi urta”). Peccato che la dialettica sia uno spirito esattamente contrario a questi atteggiamenti: strano che non lo si riconosca. Ecco quello che potrebbe essere un bel test d’intelligenza – o d’onestà intellettuale.
Erica Gazzoldi