Razzismo ambientale: quando la discriminazione diventa pericolo

razzismo ambientale

Analizzando le disuguaglianze a cui sono soggette le comunità etniche minoritarie, un aspetto che viene spesso trascurato è l’effetto che la discriminazione ha sulla scelta e sulle politiche di gestione dell’ambiente in cui la comunità si trova. Per questo negli anni ’80 è stato coniato il termine di razzismo ambientale.

Che sia dovuto a un pregiudizio mirato o derivato da un pregiudizio istituzionale radicato, gli effetti sono molto spesso gli stessi: coloro che appartengono a gruppi etnici minoritari finiscono per vivere in aree più inquinate, con la conseguente esposizione a problematiche di salute. L’evidenza di queste disuguaglianze è spesso tralasciata perché è diffusa l’idea che la natura sia universale, accessibile a tutti nello stesso modo. In realtà non è così: le disparità sociali, urbanistiche, territoriali, ambientali sono diffuse e si ripercuotono sulle condizioni di salute della popolazione e sulla mancata possibilità di disporre di territori con benefici ambientali. Il fantasma che si cela dietro tali disparità è quello del razzismo, un fattore strutturale, endemico e sistemico della società.

Nel 1982 Benjamin Chavis, un reverendo, leader dei diritti civili afroamericani, che ha coordinato il rapporto su un evidente legame fra razza ed esposizione alle sostanze o ai rifiuti tossici, ha coniato il termine di razzismo ambientale. I suoi studi si concentravano sui gruppi di neri sul territorio statunitense, ma con il tempo questa definizione si è allargata ad altre minoranze etniche come gli ispanici o i nativi americani.

Questo movimento si concentra su temi come la distribuzione equa di benefici e costi ambientali indipendentemente dall’etnia, dalla classe sociale o dallo status economico degli individui coinvolti e si pone quindi l’obiettivo di garantire a ogni individuo il diritto di vivere in un ambiente sano e sicuro. Con questa definizione si comprende che il razzismo ambientale non si riferisce solo a disuguaglianze fondate sull’etnia, ma anche su quelle che si basano sulla classe o sul genere.

Molti studiosi hanno a lungo dibattuto sulla preponderanza di una o dell’altra divisione sociale tanto da aprire il dibattito race or class: da un lato c’è chi sostiene che sia il fattore classe ad avere una preponderanza sulle disparità ambientali, dall’altra parte c’è chi le collega in modo più importante all’etnia di appartenenza. In ogni caso classe ed etnia sono spesso intrecciate e il razzismo non può riferirsi in modo esclusivo a una o all’altra:

Ma il razzismo è anche l’ideologia dello sfruttamento dei proletari e delle donne, cioè della divisione sociale del lavoro. Esso si regge sull’oppressione di classe (classismo) e di genere (sessismo), oltre che sull’oppressione di razza.

Parlando di giustizia ambientale infatti è sempre necessario tenere presente l’intersezionalità che la caratterizza, proprio per questo non sorprende che i primi leader del movimento, tra cui lo stesso Benjamin Chavis, provenissero dai movimenti per i diritti civili.

La nozione di razzismo ambientale consente di cogliere le disuguaglianze che coinvolgono diversi gruppi sociali e la natura e l’ambiente, ma soprattutto di rivelare il carattere sistemico del razzismo. Un razzismo che, come sostiene Laura Pulido, ha una sua spazialità: «che sia rurale o urbano, lo spazio si struttura secondo linee di frattura raziali». Per le politiche o le pratiche (la consuetudine) gli individui di alcuni gruppi sociali sono costretti a vivere prossimità di fonti di rifiuti tossici come impianti di depurazione, miniere, discariche, centrali elettriche, strade principali ed emettitori di particolato nell’aria.

Il colonialismo influenza le pratiche odierne

Quando si parla di razzismo ambientale non si può non pensare alle disparità a cui interi paesi sono soggetti dai tempi che risalgono al colonialismo, è allora infatti che i pregiudizi che sembrano legittimare le disparità odierne affondano le loro radici. Se infatti la coniazione del termine di razzismo ambientale è piuttosto recente, il contesto che ha portato all’affermazione di queste disuguaglianze ambientali e climatiche è invece molto più antico ed è da ricercare nella storia globale. Infatti il razzismo ambientale attraversa la storia della società moderna parallelamente alla nascita e allo sviluppo del colonialismo e del capitalismo.




Lo sviluppo moderno ha infatti caratteristiche fortemente razziste e questo si riflette sulle modalità di distribuzione dei rischi e dei benefici ambientali. Proprio per questa longevità delle pratiche non è possibile attribuire alle politiche ambientali presenti tutta la colpa di una situazione che è definita dal razzismo strutturale, sistemico ed endemico che ha caratterizzato tutta la storia globale. Si è infatti conservato, storicamente, un rapporto di presunta inferiorità naturale dei popoli non bianchi e del sud del mondo. Il motivo di questa idea è da ricercare nelle radici del colonialismo, fondamento storico di un razzismo che non ha mai cessato di influenzare la posizione di alcune etnie nella società e, in questo caso, nel loro rapporto con l’ambiente. Durante il periodo coloniale gli europei hanno sfruttato le risorse africane, senza curarsi della tutela dei diritti umani delle popolazioni locali o senza contenere l’impatto ambientale delle proprie operazioni nei loro territori. Oltre alla creazione di una situazione di svantaggio ambientale, il colonialismo ha da sempre legittimato la gerarchizzazione razziale delle popolazioni, giustificando la diversa distribuzione dei rischi e dei benefici ambientali che si traduce oggi nella costante esposizione di alcune popolazioni, come quelle del continente africano, all’inquinamento e ai danni ambientali.

La costruzione e lo sfruttamento di alcuni paesi o territori a discapito di altri non è mai casuale. Le conseguenze della disuguaglianza ambientale sono visibili e chiare nelle condizioni del continente Africano che paga il prezzo più caro della crisi climatica a cui contribuisce in minima parte. I paesi più colpiti dalle catastrofi ambientali sono quelli in via di sviluppo: secondo il Climate Change Vulnerability Index, su 33 regioni che si trovano in uno stato di pericolo avanzato a causa del cambiamento climatico 27 sono concentrate in Africa.

Il paradosso è che il continente africano produce solo il 4% di tutto il gas serra che sta mettendo in ginocchio il mondo. Secondo il rapporto della National Oceanic and atmospheric administration (Noaa), dal 1751 al 2017 solo gli Stati Uniti hanno riversato quasi 400 miliardi di tonnellate di anidride carbonica nell’atmosfera, mentre il Regno Unito e i paesi europei più di 300 miliardi; l’Africa ha prodotto solo il 3% di tutte le emissioni storiche globali.  L’Africa si trova così a dover combattere contro la crisi climatica causata da altri paesi e continenti, senza esserne responsabile e priva delle tutele necessarie: questo è evidente dal numero di disastri climatici che colpiscono più duramente e più frequentemente i paesi in via di sviluppo. A questa situazione drammatica causata da politiche estere si aggiunge anche la criticità di alcuni fenomeni locali che devastano e distruggono gli ecosistemi africani. Primo fra tutti il land grabbing che consiste nell’acquisizione di territori da parte di multinazionali estere con conseguente sfruttamento di risorse e la conseguente distruzione dell’ambiente e la perdita di acqua o terreni agricoli. In alcune aree dell’Africa le comunità vengono inoltre esposte ai danni ambientali e a un inquinamento industriale crescente che causa danni irreversibili alla salute delle popolazioni locali.

L’origine di questa disuguaglianza ambientale, che richiede l’applicazione di una nuova giustizia ambientale, come si diceva all’inizio, va ricercata nella storia.

In Armi, acciaio e malattie Jared Diamond si chiede perché una parte del globo abbia avuto uno sviluppo tanto diverso dall’altra, dimostrando che tutte le variabili che hanno portato il nord del mondo a prevalere sul sud non sono collegabili a un merito o a una superiorità etnica o razziale, ma solo alla fortuna. Infatti alcuni paesi si sono trovati con disparità che permisero alle società complesse, soprattutto ai popoli stanziati in Europa e nell’Asia Orientale, di soggiogarle. Diamond nello studio della superiorità di alcuni popoli su altri non fa riferimento al razzismo, legittimando la presunta superiorità degli uni sugli altri, ma individua nelle disparità, visibili tutt’oggi, radici geografiche, ecologiche, territoriali legate al caso.

In Armi, Acciaio e Malattie vengono ammesse e rilevate le differenze di sviluppo tecnologico fra alcuni e altri popoli nella storia. L’obiettivo è spogliare da ogni responsabilità genetica la posizione a cui siamo arrivati oggi, mostrando che è stato solo il caso ad avvantaggiare o svantaggiare i popoli e portando a un rapporto di subalternità consolidato poi nel tempo.

Le disuguaglianze che hanno portato gli occidentali a depredare, distruggere i territori africani continuano a influenzare le pratiche odierne: ad Accra, capitale del Ghana, c’è la discarica di rifiuti elettronici più grandi dell’Africa, e uno dei siti più inquinati al mondo, la discarica di Agbogbloshie. Sono 11 ettari di terreno completamente ricoperti da vecchi dispositivi elettronici inutilizzabili, le parti in plastica o di nessun valore vengono bruciate e proprio nei pressi di un insediamento di 40mila persone si innalzano continue nubi nere. Questi dispositivi «di seconda mano» provengono da Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Danimarca, Germania, Svezia, Italia, Francia. Con la Convenzione di Basilea, in vigore dal 1992, si era tentato di normare i movimenti di esportazione dei rifiuti pericolosi verso i paesi in via di sviluppo, ma ancora una volta, le pratiche contraddicono le norme. Infatti non sono coinvolti nelle limitazioni della Convenzione di Basilea i rifiuti elettronici che vengono riparati subito dopo l’arrivo, ecco perché come si diceva prima i dispositivi vengono etichettati come elettronici di seconda mano. Per trovare il motivo per cui i rifiuti vengono smaltiti nei paesi in via di sviluppo, (oltre in Ghana, anche in Senegal, in Gambia, in Togo, in Sierra Leone e in Nigeria) bisogna fare riferimento ai costi di smaltimento: quelli dei paesi europei sono molto più impegnativi di quelli dei paesi appena citati. Questa disparità evidenzia che i paesi occidentali stanno trattando il continente africano come una discarica e che alla vita delle popolazioni locali viene attribuito un valore inferiore rispetto a quello attribuito alle nostre: i rischi ambientali e climatici non sono equamente suddivisi come la giustizia ambientale richiederebbe.

Questi siti, con rischi di tossicità e problemi di salute consistenti, sono spesso collocati vicino a centri ambientali e la popolazione è costantemente esposta a pericoli e sostanze tossiche. La soluzione per limitare queste pratiche diffuse sarebbe attraverso l’impegno alla difesa dei diritti umani delle popolazioni africane e la garanzia di accesso alla pianificazione delle politiche ambientali del continente.

La Cop27, la conferenza delle parti delle Nazioni Unite, quest’anno si è tenuta in Africa, precisamente in Egitto e la locazione in Africa ha ovviamente accresciuto il bisogno di parlare del debito globale nei confronti dei paesi a basso reddito. Per questo uno dei primi punti discussi è stato proprio il loss and damage: con questo termine si fa riferimento a un fondo istituito per trasferire delle risorse finanziarie dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo. Nelle precedenti Conferenze delle parti si è parlato spesso di adattamento, quindi delle strategie volte a contenere i danni ambientali per ridurne l’impatto. L’adattamento deve essere sempre integrato alle politiche di mitigazione volte a ridurre le emissioni di gas serra e il conseguente innalzamento delle temperature. Ma la Cop27 è stata rivoluzionaria perché è stato evidenziato che adattamento e mitigazione non bastano a risollevare paesi che sono devastati per le pratiche dei paesi più sviluppati. Quando i danni sono irreversibili, è necessario quantificarli e risarcire i paesi coinvolti; risiede qui l’importanza del loss and damage, nella costituzione di un fondo che testimonia che per disparità storiche alcune aree del mondo continuano a pagare per le scelte di altri. Sembrava un obiettivo lontanissimo e invece, inaspettatamente, si è giunti a un accordo in questa edizione, dopo che le trattative andavano avanti da più di 20 anni. Per quanto questo sia un enorme passo avanti nell’individuazione delle disparità che ogni giorno mettono in ginocchio il territorio africano la strada per la promozione di una giustizia ambientale, per tutti gli individui e per tutte le aree del mondo, è ancora molto lunga.

Ludovica Amico

Exit mobile version