Razzismo ambientale: il veleno nascosto nelle nostre città

Razzismo ambientale

All’interno delle nostre società, esiste una realtà che spesso preferiamo ignorare: il razzismo ambientale è come un serpente velenoso che serpeggia inosservato nelle nostre città.


Nel corso degli ultimi decenni, l’espansione della globalizzazione ha scaturito un fenomeno di portata impressionante, un fenomeno sorprendente, noto come “razzismo ambientale”. Questa ingiustizia sociale pone il suo agghiacciante sguardo sulle minoranze e sulle popolazioni più vulnerabili del pianeta, soprattutto quelle radicate nelle regioni dell’Asia e dell’Africa, e talvolta anche in alcune nazioni dell’America Latina. In pratica, queste comunità si trovano intrappolate in territori resi tossici dalla contaminazione, privi di spazi verdi, e lontane da qualsiasi accesso al benessere ambientale.

L’illustre studioso statunitense Robert Bullard ha coniato questa terminologia per fare riferimento a “ogni decisione o politica, soprattutto quelle legate all’ubicazione di impianti industriali altamente inquinanti e dannosi, che prendono di mira e arrecano danno in maniera diversificata a individui, gruppi o comunità sulla base della loro razza o del colore della loro pelle“.

Il razzismo ambientale, un fenomeno in rapida crescita, confina progressivamente intere popolazioni e comunità emarginate in zone intrise di inquinamento e malattie. Nel lontano 1982, il luminare dei diritti civili afroamericani, Benjamin Chavis, introdusse il concetto di “razzismo ambientale”, definendolo una forma sistemica di discriminazione razziale in cui le persone più indifese, oltre a lottare contro la povertà, devono anche affrontare rischi sanitari gravi dovuti all’ambiente in cui sono costrette a vivere. In altre parole, le fasce più impoverite della società, e in particolar modo le minoranze, sono destinate a risiedere nelle vicinanze di fonti di rifiuti tossici, come impianti di smaltimento, miniere, discariche, centrali elettriche, o in quartieri pesantemente inquinati e adiacenti a strade congestionate.

Il risultato è che queste persone sono sottoposte a un rischio notevolmente più elevato di problemi di salute connessi all’inquinamento atmosferico. Questa è un’ingiustizia sociale che affonda le sue radici nelle condizioni di sottomissione in cui queste popolazioni si trovano, spesso incapaci di comprendere, affrontare o combattere i pericoli che incombono su di loro. Al contrario di coloro che sono consapevoli dei rischi associati alla residenza in determinate aree e difendono il principio del “Non nel mio cortile” (Not in my backyard, o NIMBY), queste comunità spesso ignorano completamente queste problematiche. Non è un caso che molte imprese, consapevoli di questa vulnerabilità, abbiano deliberatamente spostato le loro attività industriali proprio in queste regioni del pianeta.

La storia del razzismo ambientale è un racconto oscuro, una narrazione di disparità, oppressione e violazione dei diritti umani. La lotta per porre fine a questo nefasto fenomeno è una sfida urgente, poiché ogni individuo, indipendentemente dal colore della pelle o dalla condizione economica, ha il diritto fondamentale a vivere in un ambiente sano e libero da pericoli. La sensibilizzazione e la mobilitazione sono fondamentali per affrontare questo flagello e porre fine al razzismo ambientale che opprime le comunità più svantaggiate del nostro mondo.

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