Un referendum senza quorum che può segnare le sorti della maggioranza di governo e il destino di un Paese.
Sono forse i sistemi elettorali il vero ago della bilancia dell’Italia post Guerra Fredda. All’indomani dell’inchiesta Mani Pulite e della mutazione dei partiti tradizionali avvenne il primo grande cambio nel modo di tradurre il consenso elettorale in equilibri parlamentari. Tra proporzionalità, partiti civetta, listoni bloccati, premi di maggioranza e riforme costituzionali, la rappresentanza politica nel nostro Paese ha vissuto tre decenni di travagliata evoluzione.
In questa domenica di fine marzo avremmo dovuto esprimere la nostra idea sulla proposta di riduzione del numero di parlamentari. A causa della chiusura del Paese per resistere e placare la diffusione del Covid-19, il referendum è stato posticipato. Difficile, nel mezzo di questa crisi, saper dire con certezza quando saremo chiamati al voto. Questi mesi di emergenza possono fornici un principio per il futuro. Nella dicotomia tra rappresentanza politica e governabilità, quest’ultima non si otterrà dal pericoloso depauperamento della prima.
Pluralità o stabilità? Dilemma italiano
Potremmo fermarci a questo sintetico “titolo” per condensare in un’unica formula l’evoluzione della rappresentanza politica in Italia. Nei primi anni ’90, si affermò la necessità di ricalibrare il proprio sistema d’elezione ai due rami del Parlamento. Era necessario secondo molti una cesura con il quasi cinquantennale passato proporzionalista. Fatta eccezione per la modifica del 1953 (si tratta della famigerata Legge Truffa, così definita a causa del premio di maggioranza previsto), concepita dal governo De’ Gasperi e abrogata in meno di un anno, l’Italia visse la totalità della Guerra Fredda con un sistema proporzionale composto da 32 circoscrizioni plurinominali. Ideato per portare nel miglior modo possibile all’Assemblea Costituente le istanze di ogni zona di un Paese martoriato dalla guerra, il modello resistette anche nelle pagine più buie e tormentate della vita civile e politica.
Dal Mattarellum al Porcellum
Una decisa richiesta di discontinuità con il passato giunse nella primavera del 1993 quando all’interno della maxi tornata referendaria gli aventi diritto si espressero a favore dell’abrogazione di alcune parti della legge elettorale per il Senato. L’onda di rinnovamento cavalcata dai Radicali e dall’ex-democristiano Segni, raggiunse un obiettivo cercato sin dal 1991 con un altro quesito referendario, bocciato però dalla Corte Costituzionale. Fu l’attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a delinare la prima riforma elettorale dal ’46. Il sistema ibrido costruito previde per 12 anni l’accostamento di un modello maggioritario, impiegato per il 75% dei seggi tra le Camere e di uno proporzionale basato sul calcolo di “scorporo” per l’assegnazione tra i più votati non eletti del 25% del Senato e sui listoni bloccati per il 25% della Camera. Prevista anche una soglia di sbarramento al 4% per l’elezione.
L’ibrido con il quale Mattarella intrecciò i due sistemi valse alla legge il nome di Minotauro e non fu esente da critiche. Il tentativo di conciliazione tra tradizione e presente, condusse ad altre battaglie referendarie. Una radicale cesura giuse solo nel 2005 con la “Legge Calderoli”. Approvato dal governo Berlusconi, il Porcellum (denominazione della manovra generata dalle dichiarazioni dello stesso proponente), stravolse l’intreccio definito da Mattarella per applicare un maggioritario camuffato da proporzionale. Introduzione del premio di maggioranza, affiancata a una rielaborazione dei collegi, severe regole di sbarramento e scomparsa del voto di preferenza. Questi i principali punti di un provvedimento, parzialmente bocciato dalla Corte Costituzionale nel 2014, che definì l’idea padronale di politica, dominata dalla tensione verso un bipolarismo perfetto.
Dall’Italicum ad oggi
Se il Porcellum è passato alla storia come un emblema del berlusconismo, la sentenza del 2014 aprì la strada alla battaglia renziana sulla rappresentanza politica. Forte del buon risultato alle europee del 2014, Matteo Renzi catalizzò l’impegno di personalità come Roberto Giachetti per realizzare un ampio progetto di riforma. Nel maggio del 2015, l’approvazione dell’Italicum, introduceva una variante proporzionale contraddistinta da un eventuale doppio turno, premio di maggioranza, capilista bloccati in collegi plurinominali e la possibilità di candidatura in 11 collegi simultaneamente. L’Italicum era strettamente legato alla proposta Renzi-Boschi di riforma costituzionale per l’abolizione del Senato e il superamento del bi-cameralismo. A supporto della Camera sarebbe subentrato un organo consultivo costituito da rappresentanti delle regioni nominati con elezione indiretta. Seppur approvato nell’aprile del 2016, il progetto fu bocciato al Referendum del 4 dicembre. L’Italicum fu invece soggetto a parziale revisione della Corte Costituzionale l’anno successivo.
La bocciatura del doppio turno e della scelta concessa ai candidati eletti in più collegi di scegliere quale rappresentare, portarono al Rosatellum, attuale sistema in vigore. Un parziale ritorno al passato con la ripartizione percentuale del voto per 37-67-2 tra maggioritario, proporzionale e voto estero.
Antipolitica e taglio dei parlamentari
Tagliando i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, la proposta di M5S e governo Conte incarna la battaglia ai costi della politica. Il voto del testo rappresenta per molti l’ultimo baluardo dell’antipolitica grillina, prevede due scenari opposti ma sempre decisivi. Trascendendo dal risparmio dei costi, stimato, a differenza del pensiero dei promotori, allo 0,007% della spesa pubblica, il voto alla proposta potrà cementificare la crisi del fronte grillino o aprire la strada a un altro scenario di instabilità, sacrificando il paradigma di rappresentabilità. Mancanza di quorum ed equilibri a Palazzo Chigi avranno un peso significativo sulla scelta che il Paese prenderà.
Sembra evidente come la politica italiana stia continuando a fallire sul tema che rappresenta la spina dorsale della democrazia. A farne le spese è la qualità della rappresentanza politica, degradata da retoriche più attente al rafforzamento dell’esecutivo piuttosto che alla connessione con l’elettorato. Lo scenario che comporta il rischio di intere regioni senza alcun rappresentante, condurrebbe a un’altra svalutazione.
Fabio Cantoni