Bandiere del Pride, spille del Pride, calzini del Pride, magliette del Pride: chi più ne ha, più ne metta. Fino a qualche tempo fa, il simbolo che nel 1978 Gilbert Baker ha inventato per rappresentare l’orgoglio della comunità LGBTQ+ si limitava a qualche bandiera. Oggi, invece, a inizio giugno sono poche le aziende che non introducono sul loro sito del merchandising color arcobaleno per il Pride month: benissimo, se questa non fosse diventata una semplice moda nel solco del “rainbow washing”.
Per “washing” si intende quel fenomeno con cui le aziende (e anche gli Stati) si sperticano in presunte campagne di sensibilizzazione relative a una certa tematica, senza un obiettivo concreto vero e proprio, ma solo con l’intenzione di fare cassetto, magari perché il target di riferimento è particolarmente sensibile a quel messaggio. Esiste ad esempio il green washing, relativo all’ambientalismo e lo posso realizzare con alcuni semplici accorgimenti: nel naming (la scelta del nome del prodotto) scelgo qualcosa che strizzi l’occhio all’ambiente, nel packaging opto per colori come il verde o il color cartone, su cui campeggia uno slogan cool o un hashtag che rimanda appunto alla mia sensibilità ambientale. Tutto qui: non serve che nella produzione io adotti particolari accorgimenti per rispettare maggiormente la natura. Fingo di adeguarmi solo per cercare di vendere di più.
Entrino i gadget arcobaleno
Lo stesso avviene, sempre più, durante il Pride month, ogni giugno: le multinazionali mettono sui loro siti di shopping online la sezione “Pride”, con le magliette arcobaleno e tutti i gadget predisposti all’occorrenza, per poi farli sparire pochi giorni dopo. Quindi non si può vendere nulla che rimandi alla lotta LGBTQ+? No, il problema non sta qui, ma nel fatto che le aziende guadagnano su una lotta sociale altrui, mettendo a reddito le rivendicazioni di chi viene discriminato e, ovviamente, tenendosi i profitti che derivano dalla vendita dei calzini rainbow. Rispetto al mero rainbow washing, sarebbe certamente più impegnativo decidere di lanciare una campagna che, tramite i prodotti del Pride, devolvesse parte del ricavato alla causa e ad associazioni che, per esempio, si occupano di proteggere chi viene discriminato.
Il rischio di sentirsi a posto
Non basta che le aziende, dunque, siano armate delle migliori intenzioni: apporre un arcobaleno su una maglietta può anche essere un modo per semplificare l’approccio dell’opinione pubblica. Indosso un arcobaleno e mi sento a posto e pienamente di supporto, senza pensare alle discriminazioni che le minoranze subiscono in ambito lavorativo o quando si cerca un alloggio. Un po’ come accade per lo slacktivism su Internet: mettere un arcobaleno su Instagram mi costa meno che informarmi sulla questione senza cadere in semplificazioni. Mercificare e monetizzare l’orgoglio gay rischia di annacquare il significato del Pride stesso: anche chi ha le migliori intenzioni, come consumatore, rischia di cadere nel tranello delle aziende.
Il business dietro all’arcobaleno
Secondo Forbes, nel 2019, gli adulti appartenenti alla comunità LGBTQI+ avevano un potere d’acquisto complessivo per 3,7 trilioni di dollari: una cifra che non passa inosservata agli occhi delle imprese. Un articolo della BBC, parlando del cosiddetto “pink pound”, cioè il denaro delle persone appartenenti alla comunità LGBTQI+, ha sottolineato come il 70% degli omosessuali ammetta di essere positivamente influenzato da annunci che contengono immagini gay e lesbiche. È ovvio che le aziende, in ottica opportunista, non aspettino altro che apparire di supporto alla comunità.
Come proteggersi dal rainbow washing?
Il portale The Urban List ha creato, a questo proposito, una sorta di vademecum per riuscire a distinguere quali iniziative aziendali siano genuine e quali, invece, siano interessate meramente al portafogli del loro target. Analizzando il comportamento di un’azienda, può trattarsi di “rainbow washing” se le iniziative arcobaleno si limitano al mese di giugno, con l’uso di testimonial LGBTQI+ solo in questo periodo dell’anno, se appongono l’arcobaleno sui prodotti e se fanno apparire i loro simboli nelle parate. O, ancora, se offrono falsi incentivi ai talenti queer e se modificano i loro loghi temporaneamente, limitatamente alle zone geografiche in cui questo non rappresenta un problema, si tratta di “rainbow washing”. E, ovviamente, se sui siti non compare nulla in merito alle donazioni aziendali a sostegno delle cause LGBTQI+.
Un tweet che mette a confronto i loghi della Serie A di calcio italiana: in alcuni dei suoi profili internazionali ha cambiato il logo con i colori dell’arcobaleno, a esclusione di quello relativo al pubblico arabo.
But not everywhere.
Is this the new politically correct racism? pic.twitter.com/XCp64f5Zld
— 🇮🇹+P.i.L.🏳️🌈Prima i Lavoratori🇮🇹 (@PrimaiLavorator) June 27, 2021
I comportamenti virtuosi
Sempre The Urban List, poi, ha elencato invece gli atteggiamenti di supporto alla comunità che non sfociano nel rainbow washing. Non è strumentalizzazione se la solidarietà alla causa si estende per tutto l’anno, con un’attenzione particolare alle politiche del personale e ai feedback della clientela, se vi è trasparenza negli intenti e misurabilità nel supporto. Ciò significa che il sito, quando comprate, vi dice: “Il 50% del ricavato sarà donato all’associazione X che supporta la causa Y”. Comporta anche che la scelta dei testimonial appartenenti alla comunità LGBTQ+ non sia limitata al mese di giugno.
Elisa Ghidini