Dalle t-shirt ai jeans, dalle borse alle scarpe, a giugno tutto si ricopre di arcobaleni per il Pride Month: solidarietà o Rainbow Washing?
Siamo ormai abituati ad assistere all’esplosione di colori della bandiera lgbtqia+ sulle vetrine dei negozi, soprattutto a giugno, mese del Pride. Collezioni studiate ad hoc per dimostrare il sostegno ai membri della comunità e celebrare la diversità. Dietro la realizzazione dei capi, soprattutto fast fashion, però, spesso la realtà è ben diversa. I diritti di cui molte aziende si mostrano sostenitrici, infatti, non vengono sempre tutelati. Si tratta di Rainbow Washing, strategia di marketing che mira a mostrare i brand come lgbtqia+ friendly , mentre in realtà non lo sono e utilizzano quindi i colori arcobaleno soltanto a scopo di lucro.
Non si parla soltanto della comunità lgbtqia+, perché, come afferma Francesca Vecchioni, fondatrice di Diversity, intervistata da LifeGate “oggi l’attivismo è intersezionale” e farlo vuol dire tutelare i diritti di tutte le minoranze, lottare per la parità di genere, arginare razzismo e omotransfobia.
Molti brand ad oggi non sono ancora trasparenti riguardo le loro politiche interne e sono spesso oggetto di scandali e condanne da parte delle istituzioni, dei media e degli attivisti. Proprio in questi giorni in Francia è stata lanciata una campagna per boicottare Shein, il brand cinese fast fashion che sta ora aprendo store fisici in Europa. Il colosso è da tempo nel mirino degli attivisti, in quanto è noto ormai che il suo sistema iper-produttivo impiega manodopera servile.
Anche brand che si sono sempre schierati dalla parte della comunità lgbtqia+ sono stati oggetto di accuse in merito alla tutela dei diritti dei lavoratori. Nel 2019, un’inchiesta condotta dal Worker Rights Consortium ha denunciato Levi’s per abusi sessuali, testimoniati da alcune lavoratrici di una fabbrica situata in Sud Africa.
Le donne hanno affermato di essere state oggetto di violenza da parte dei manager, i quali minacciavano di licenziarle in caso di opposizione. Il Vicepresidente di Levi’s ha dichiarato il fatto intollerabile. E’ stato dunque segnato un accordo per assicurare il monitoraggio delle fabbriche e costituito un gruppo investigativo per raccogliere le testimonianze dei lavoratori.
Quest’anno, l’azienda ha lanciato una campagna dal titolo ‘How do you show up? ‘ (Pride Clothing: Shop Pride Shirts & Apparel | Levi’s® US) in cui racconta i propri traguardi raggiunti a supporto della comunità lgbtqia+. Inoltre, dichiara che i profitti derivanti dalla vendita della collezione Pride saranno donati ad OutRight Action International , organizzazione no-profit che si occupa della tutela della comunità. Sembra che il pericolo di Rainbow Washing sia stato evitato e ci auguriamo che il brand continui per questa strada.
L’attenzione alla sostenibilità è oggi più che mai attuale e sempre più persone si chiedono cosa si celi dietro un capo. Prima di comprare, dunque, chiediamoci se ciò che stiamo acquistando sia frutto o meno di Rainbow Washing, informiamoci sulla trasparenza del brand. Perché dietro quel capo ci sono persone i cui diritti non sempre vengono rispettati, anche se una frase d’effetto su una t-shirt vorrebbe farlo credere.