Raimondo Etro è un ex brigatista, uno dei volti più conosciuti – immagino – degli anni di piombo.
Coinvolto nell’organizzazione per il rapimento di Aldo Moro del 1978 e, dunque, complice della strage di via Fani; processato e condannato dalla Corte d’assise nel 1996 a ventiquattro anni e sei mesi – successivamente ridotti a vent’anni nel ’98.
Parliamo dunque di un individuo che ha combattuto e sbeffeggiato lo Stato per anni; tuttavia, ora libero cittadino, avente scontato quanto la legge gli imputava. Non c’è dubbio dunque sull’efficacia della giustizia italiana, perlomeno in questo contesto. In teoria, si tratterebbe di un argomento chiuso.
Quando si parla di Aldo Moro, risvegliare vecchie ferite non è difficile, un po’ come quando vengono rammentati G. Falcone e P. Borsellino; ma sull’altra faccia della stessa medaglia, torniamo ad affrontare un argomento ormai più che sdoganato, relativo la presunzione di un Paese che ama ricordare ciò che non ha mai vissuto.
La memoria storica è certamente fondamentale, in quanto in grado di tracciare quella linea di confine tra i vecchi errori e le proposte di rinnovamento; è ciò su cui si basa l’ideologia, la forza di un sistema politico in grado di comprendere il suo popolo, evitando di ricadere in vecchie trappole dottrinali.
L’Italia, in realtà, non è esattamente un campione in questo e di esempi se ne potrebbero citare.
Ma oggi parliamo di Etro e del suo “intervento” a Non è l’Arena.
La conduzione di Massimo Giletti è conosciuta per essere ricca di spirito: un combattente, avversario del giro mafioso e più volte portatore di testimonianze importanti; è apprezzabile il tentativo di portare esempi di cittadini modello, pregni di coraggio, in grado di fronteggiare un cancro ben noto su suolo italiano.
Senonché, non nutro le medesime considerazioni per l’effettivo linciaggio avvenuto ai danni di Raimondo Etro, rincalzati dalle “perle di saggezza” di Daniela Santanchè.
Il tema era legato al reddito di cittadinanza, più volte criticato per la sua “scala di valori” inerente i beneficiari. Sono infatti molti ad approfittarne, una condizione sollecitata dai mancati miglioramenti promessi da Luigi di Maio, il quale aveva assicurato eventuali modifiche nel caso il reddito non fosse distribuito in modo sicuro.
Stesso principio valevole per i pregiudicati, i quali non avrebbero dovuto percepire alcuna somma; ed è qui che entra in scena l’ex brigatista.
Raimondo Etro, durante la puntata, ha avuto poche occasioni di ribattere e spiegare alla platea la sua condizione; attualmente il suddetto subisce difficoltà economiche tanto ingenti da rendere inefficaci i 780 euro al mese ricavati dal reddito.
La conduzione di Giletti si è dimostrata tutt’altro che democratica, adornata da interruzioni a regola d’arte, da cui si evince chiaramente la differenza tra gli interventi della Santanchè rispetto alle possibilità di replica di Etro. Presente come ospite anche il giornalista Peter Gomez, dagli interventi però eclissati, causa la ferocia del dibattito.
La Santanchè spinge sull’acceleratore, invitando Retro a «pulire i cessi», lavorare, evitando di percepire il reddito a spese degli italiani. Chiaramente, viene sottolineata l’inclinazione politica, additandolo come «amico dei comunisti»; poco chiara l’utilità di questa affermazione, se non per pura puntualizzazione politica.
Ma perché lo dobbiamo mantenere noi italiani, che ci voleva ammazzare, sparare, voleva sovvertire lo Stato? I miei soldi vanno a quel signore che ancora oggi si permette sui social di scrivere cose irripetibili nei confronti di donne. Ma una persona così deve scomparire, noi italiani non dobbiamo pagarlo. Vada a lavorare
Nulla da ridire sugli interventi poco eleganti di Retro, dovuti probabilmente ad un botta e risposta troppo acceso sui social. L’ospite bersagliato cerca di giustificare la sua posizione, sottolineando dei punti effettivamente influenti.
E’ evidente che il mio atteggiamento nei confronti dello Stato è modificato negli ultimi 40 anni. Io mi sono consegnato allo Stato, mi sono affidato alla Stato, ho scontato la pena. Altrimenti scontare la pena a cosa serve?
Valido il ragionamento di Retro, che, nei pochi momenti disponibili a ribattere, segue:
La legge sembra quasi che l’abbia fatta io o qualche mio amico. Ma la legge non l’ho proposta io, non l’ho fatta io, io beneficio di una legge che ha fatto lo Stato
Il punto su cui invitavo il lettore a riflettere è questo: quale sarebbe l’utilità di questa intervista?
Non vedo a cosa possa servire credere nella legge, pronunciare parole come “democrazia” e “costituzione” così tante volte da renderle vuote, se poi la comunicazione risultante è questa. Non vedo dove sia l’esempio che darebbe lo Stato, dove cominci e finisca la libertà di parola.
Comprendo invece l’ipocrisia di fondo. L’ipocrisia di una Santanchè in grado di fare solo le stesse insinuazioni durante l’intero dibattito, gli scroscianti applausi che ne seguono, il completo disinteresse per un uomo che ha passato 20 anni della sua vita in carcere. Quello che sottopongo al lettore non è il tentativo di giustificare qualcuno che meritava quanto ha pagato secondo i termini di legge; non è certo inoltre un modo per infangare la figura di Aldo Moro, trattando un argomento che, al contrario, mi sta molto a cuore.
Ciò che sottopongo al lettore è il continuo puntare il dito senza un motivo costruttivo, un dibattito funzionale, atto a descrivere e decifrare un episodio; il disinteresse verso un pubblico contemporaneo ormai abituato a giudicare senza alcuna cognizione di causa; che non viene educato, affinché si comprenda a pieno il prima e il dopo, il passato e il presente degli eventi. Quanti di quella platea erano consci del contesto storico? Quanti si ricordavano di Retro? Quanti – perfino – si ricordavano della posizione politica ricoperta da Aldo Moro?
Raimondo Etro, che piaccia o no, è un essere umano che ha pagato. Non un santo, non un bastardo, ma figlio dei suoi valori, sulla vetta dei più oscuri anni d’Italia. Non ci sarà mai alcuna possibilità di progresso ideologico se il passato non servirà a completare, redarguire il presente che conosciamo. Non c’è futuro per un Paese che si compiace dei pochi attimi in cui vige la gogna, in cui l’espediente utile per migliorarsi e insegnare si trasforma in una caccia all’uomo.
Il peso delle proprie colpe si paga anche con il sostegno degli altri; al di fuori di ciò, non esiste straccio di costituzione che tenga.
Eugenio Bianco