Raid su un campo profughi in Myanmar: oltre 80 i civili coinvolti

giunta golpista del Myanmar campo profughi in Myanmar

Sempre più vittime nella guerra civile birmana. Un campo profughi in Myanmar è stato attaccato dall’esercito regolare, provocando circa 30 morti e più di 50 feriti, tra i quali diversi bambini ed anziani. A riferirlo un esponente del gruppo paramilitare KIO, una delle tante organizzazioni di combattenti civili che si oppongono al governo golpista al potere dal 2021. Tuttavia la giunta militare nega di essere coinvolta nell’accaduto.

Il raid sul campo profughi in Myanmar

Circa 29 morti e 56 feriti, tra cui diversi bambini ed anziani. È questo il drammatico bilancio dell’attacco subito da un campo profughi in Myanmar il 9 ottobre. L’attacco è avvenuto nella regione del Kachin, situata a Nord del paese e non lontana dal confine con la Cina, circa alle 23.30 ora locale. I media locali riferiscono che il raid sarebbe stato opera dell’esercito regolare birmano, il quale avrebbe fatto prima detonare vicino al campo un potente ordigno e in seguito sparato diversi colpi di mortaio da alcune postazioni militari situate lì intorno. Il campo profughi, che ospita circa 150 famiglie, non è un obiettivo casuale: l’area è infatti controllata dalla Kachin Independence Organization (KIO), un gruppo paramilitare che si oppone al governo golpista della giunta e che ha la propria sede a Laiza, città montuosa situata a pochi chilometri dal luogo dell’attacco. La dinamica del raid sarebbe tuttavia ancora da chiarire: mentre è certo che siano stati effettivamente sparati dei colpi di mortaio, ci sono alcuni dubbi su come sia stata fatta detonare la bomba. Come riferito da un esponente del KIO alla BBC, nella zona «Non si è sentito alcun aereo», lasciando quindi ipotizzare l’utilizzo di droni da parte dell’esercito; sempre il portavoce del gruppo paramilitare ha dichiarato che le vittime, molte delle quali estratte dalle macerie, erano tutte civili. L’attacco è uno dei più sanguinosi mai avvenuti nella guerra civile che dal 2021 continua imperterrita a mietere vittime.


Il Governo di Unità Nazionale (NUG), cioè il governo in esilio sostenuto dalla popolazione contraria al golpe, ha immediatamente condannato la giunta militare per il raid al campo profughi definendolo un «crimine di guerra e contro l’umanità». Il governo di Naypyidaw tuttavia smentisce (come era prevedibile) negando qualsiasi forma di coinvolgimento nell’accaduto, dichiarando che nella zona non si stavano svolgendo operazioni di nessun tipo e che la detonazione potrebbe essere colpa di «alcuni esplosivi immagazzinati». Le dichiarazioni della giunta militare non trovano però conferma nelle parole dei testimoni, che affermano con sicurezza che l’esplosione ha dato il via ad un attacco di artiglieria ben coordinato. D’altronde non è la prima volta che l’esercito del governo golpista effettua attacchi indiscriminati verso i civili.

La difficile situazione politica e sociale del Myanmar

Nel febbraio del 2021 il governo eletto guidato da Aung San Suu Kyi viene rovesciato dall’esercito birmano e la leader viene arrestata, venendo in seguito condannata ad oltre 30 anni di carcere. La giunta militare prende il potere instaurando un nuovo governo e il popolo comincia a protestare, organizzandosi ed armandosi per combattere i golpisti che reprimono con la violenza le manifestazioni. Da quel momento in Myanmar ha luogo una guerra interna durante la quale i militari hanno più volte fatto uso di attacchi aerei per colpire i loro avversari, bersagliando spesso anche obbiettivi civili, e in particolare le minoranze etniche. Ad ottobre 2022 un attacco aereo ad un concerto nella regione del Kachin ha mietuto decine di vittime civili; i militari ricorrono regolarmente a torture, detenzioni arbitrarie, esecuzioni e razzie nei villaggi per assicurarsi che la popolazione rimanga assoggettata al governo di Naypyidaw. Una situazione intollerabile e impossibile per gli abitanti dell’ex Birmania, che si trovano costretti a vivere in povertà e vittime di un regime militare crudele.

La comunità internazionale intanto si schiera, a parole, vicino allo stato asiatico, con i rappresentanti delle Nazioni Unite in Myanmar che si dichiarano preoccupati dagli ultimi avvenimenti e che sottolineano come «i campi per sfollati interni dovrebbero essere luoghi di rifugio sicuri per i civili e non dovrebbero mai diventare obiettivi di attacchi». Difficile dirsi quando e se la situazione birmana si risolverà, anche per via del forte appoggio che la giunta militare riceva dal governo di Pechino. La situazione è dunque socialmente e politicamente complicata: l’unica cosa certa è che persone innocenti sono costrette a vivere nella paura delle bombe e delle persecuzioni. Di nuovo.

Marco Andreoli

 

 

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