È la musica del sole e della resistenza: colei che unisce il ritmo pulsante dell’Africa ai cromatismi sonori caraibici; è il Raggae e da oggi è ufficialmente patrimonio dell’umanità.
Il verbo musicale che parte da quell’isola di Giamaica, piena di ricchezze spirituali e insanabili contraddizioni, è stato inserito dall’Unesco nella lista dei tesori culturali globali delle Nazioni Unite.
Un linguaggio di amore e rivoluzione, quello del Raggae, il cui spirito alberga nel cuore mitologico dell’Africa profonda e grazie al suo “profeta” Bob Marley è riuscito a diffondersi all’interno delle culture musicali contemporanee di mezzo mondo, diventando una vera rivoluzione d’immagine e costume.
Tanti sono i generi e sottogeneri musicali, nonché gli artisti che hanno preso ispirazione diretta da quel groove cadenzato che ha affascinato un’intera generazione.
La decisione è stata presa dal comitato speciale dell’organizzazione, riunitosi a Port-Louis, capitale delle Mauritius. Dopo aver ampiamente analizzato forza espressiva e di contaminazione del Raggae, l’Unesco ha sottolineato la forza che avuto tale musica, sui temi dell’ingiustizia, della resistenza, dell’ amore e dell’umanità.
Grazie al carisma e allo spirito comunicativo di Bob Marley, Peter Tosh, Gregory Isaac e tanti altri, il Raggae è riuscito a imporsi sulla scena musicale, per allargarsi a tutti i fenomeni sociale e culturali.
Questo perché il Raggae si configura non solo come un genere musicale, ma anche come uno stile di vita e di pensiero, nel quale la musica racchiude l’essenza di ogni aspetto delle relazioni umane e soprattutto del rapporto con Dio.
L’uso della marijuana associato alla filosofia religiosa e alla meditazione; la capigliatura a mo’ di dreadlocks (Jata nella cultura Hindi); la consapevolezza storica e spirituale delle proprie radici; il ritorno alla Madre-Africa e tutte le componenti del culto rastafari, hanno consegnato al Raggae, l’aura metafisica che lo ha reso non solo un fenomeno di costume, ma un linguaggio trasversale, capace di arrivare a tutti coloro che avevano e hanno a cuore la libertà e la difesa dei diritti.
Dai Clash a Sting, da Mick Jagger a Eric Clapton, la febbre del Raggae contaminò gran parte della scena rock e punk inglese e americana.
Il principio di umanità della musica Raggae si è espresso da sempre con l’idea di divertire, ballare, ma anche entrare in comunione con Dio e tutte le forme di vita.
Quando Toots Hibbert coniò il termine, nel 1961, con il singolo Do the raggay, la natura del suo messaggio era già definita.
Si trattava di mettere in sintonia corpo e anima, sfruttando un ritmo ben scandito da accordi staccati di piano, chitarra e charleston, che avevano il compito di guidare il corpo verso l’unità e l’estasi.
Tutto questo avvenne senza dimenticare un’origine comune per tutti gli stili afro-americani: la schiavitù da parte degli europei, in quell’isola dei Caraibi dove il calypso di Trinidad non aspettava altro che di congiungersi con il suo ritmo lontano.
La naturalezza, con cui il suo ritmo in levare, riesce a simulare il respiro e il battito cardiaco, rappresenta al meglio il senso di tensione e liberazione, che muove simultaneamente la divinità e la carnalità più immediata.
Certamente gran parte della decisione dell’Unesco dipende proprio da Bob Marley. L’influenza del musicista sulla diffusione del Reggae si è così tanto allargata al tessuto sociale, tanto da consacrare l’artista giamaicano non solo come la prima grande star internazionale venuta dal Terzo Mondo, ma anche l’interprete di un sogno di libertà e pace.
Negli anni il Raggae è diventato sempre di più una moda piuttosto che un linguaggio concreto, ma il valore culturale di questa musica si manifesta, ancora oggi, in una testimonianza forte di fede e impegno verso i messaggi universali nei quali milioni di giovani si riconoscono ancora oggi in tutto il mondo.
Fausto Bisantis