La ragazzina araba picchiata a Roma è l’ennesima storia di un caso isolato

ragazzina araba

Una ragazzina araba è la protagonista di un altro “caso isolato” di razzismo

No, non siamo negli Stati Uniti e i carnefici non sono poliziotti.
E’ Collatino, periferia est di Roma, a fare da sfondo a questa storia. Nel pomeriggio del 16 settembre la vittima, una ragazzina araba, è stata insultata e picchiata in mezzo alla strada dai suoi coetanei.

Un atto di bullismo di stampo razzista che è solo il capitolo finale di un libro aperto già dal settembre 2019, quando la giovane tredicenne di origini nordafricane ha cominciato ad essere presa di mira da ragazzi che frequentano la sua stessa scuola. Violenze verbali e discriminazioni che sono state interrotte dal periodo di lockdown. Ma con la riapertura delle scuole, per la ragazza il periodo di tregua è finito lasciando ampio spazio a nuove offese razziste e prevaricazioni.

Tutte le storie di razzismo hanno un epilogo comune. L’aggressione. Il motivo di questa aggressione? La risposta dovrebbe essere: “nessuno”. Non ci dovrebbe essere nessuna scusante, nessuna attenuante. Nemmeno se i predatori dell’aggressione sono ragazzini.  Eppure, il movente che ha causato quella collera acerba e velenosa è da ritrovarsi nelle stesse parole che quei ragazzi hanno pronunciato mentre prendevano a calci e pugni la vittima.

“Araba di m***a. Tornate al vostro paese. Figli di pu****a.“

Questo il linguaggio violento usato dai giovani aguzzini. Linguaggio vomitato addosso alla vittima,  ricoperta di insulti, sputi e botte. Tutto questo sotto gli occhi infuocati di una folla di altri giovani, spettatori disimpegnati che invece di intervenire a difesa della ragazza hanno compiuto la scelta più semplice. Inneggiare alla crudeltà e fare il tifo per i più forti, come la folla ammaestrata delle dittature spiegate nei loro libri di storia. E poi riprendere la scena per farla diventare virale, come nel migliore degli episodi di Black Mirror.

La sera stessa, la giovane vittima si reca alla festa di compleanno della sua amica per darle il suo regalo. Poi chiama i genitori per farsi venire a prendere. Al loro arrivo, la ragazza che l’aveva picchiata si avvicina con la propria madre, accusando la ragazzina araba.  Ed è proprio la madre a tuonare odio immotivato e insulti razzisti, gli stessi insulti che vengono tramandati senza alcuna sensibilità anche ai ragazzini.

Una volta portata in ospedale, alla protagonista della storia è stato refertato un trauma al volto e un trauma policontuso all’orecchio sinistro. I due bulli che l’hanno picchiata sono stati denunciati dai carabinieri.



L’Italia non è un paese razzista, ma…

Ma questo non è l’episodio di una serie tv. E’ un episodio di vita reale. Un episodio che continua da troppo tempo e fatica a trovare una conclusione.

Un episodio di violenza che verrà giustificato o svilito, come sempre avviene quando i colpevoli sono italiani, ancora meglio quando sono giovani. Una “ragazzata” che sarà lasciata morire con la solita patina di superficialità prima che il prossimo caso isolato di razzismo e bullismo possa fare notizia.

Più della violenza fisica che ha lasciato segni e lividi sul corpo della tredicenne, l’orrore sta nella violenza delle parole e nel sistema che le ha create. Possiamo fingere che siano solo versi d’immaturità di singoli individui, troppo giovani per capire la sofferenza di quelle parole, oppure possiamo ammettere la verità.
Il linguaggio che quei ragazzi hanno utilizzato non è frutto del loro pensiero, è il risultato di quello che sentono. Gli insulti rabbiosi scagliati come pietre e usati per glorificare il loro gesto, provengono dalle loro bocche ma sono presi in prestito da una sovrastruttura culturale che li autorizza e li legittima a farlo. E di quella sovrastruttura tutti noi siamo responsabili. Ma non c’è da preoccuparsi perché tanto, lo sappiamo, l’Italia non è un paese razzista.

Carola Varano

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