In Tunisia è stato arrestato uno dei leader dell’opposizione, Rached Ghannouchi. Questo è solo l’ultimo degli arresti eccellenti che dall’inizio dell’anno testimoniano il giro di vite del Presidente Saied alle libertà democratiche del Paese. Nel frattempo aumenta la preoccupazione per la traiettoria politica di Tunisi, sempre più sbilanciata verso Paesi ostili ai tradizionali alleati tunisini, tra cui l’Italia.
Arrestato a Tunisi Rached Ghannouchi, era uno dei leader dell’opposizione
La sera del 17 aprile la polizia tunisina entrava nella casa di uno dei leader dell’opposizione al Presidente della Repubblica Kais Saied. Alcune ore dopo Rached Ghannouchi, Presidente del partito islamico Ennhadha è in stato d’arresto. Senza la possibilità, comunica il vice Presidente del partito Mondher Lounissi, di confrontarsi con il proprio avvocato. L’arresto di Ghannouchi, fanno sapere fonti del Ministero dell’Interno, segue alcune dichiarazioni dell’uomo alla stampa. Il politico avrebbe affermato, in almeno un’occasione, che, nel caso in cui si impedisse all’Islam politico (base ideologica e strutturale di Ennhadha) di presenziare al dibattito pubblico del Paese, la Tunisia scivolerebbe nella minaccia di una guerra civile.
Quello di Ghannouchi è solo l’ultimo di diversi arresti eccellenti che dall’inizio dell’anno scuotono la politica e la società del Paese nord africano. Secondo diversi osservatori internazionali, dall’inizio di febbraio sarebbero almeno una ventina le personalità di spicco incarcerate da Tunisi. Tra queste, uomini d’affari, politici, giornalisti. Tutti legati in maniera più o meno definita all’opposizione contraria al Presidente Saied, accusato di colpo di Stato per lo scioglimento del parlamento nel 2021. Ripercorrendo le vicende che hanno condotto a quest’arresto, è possibile svelare la contemporaneità di un Paese dove il termine guerra civile ricorre sempre più spesso. Un Paese che per vicinanza geografica, storia e densità delle relazioni che lo legano al nostro, non può essere ignorato dalla traiettoria della politica estera e dallo sguardo dell’opinione pubblica italiane.
La giovinezza di Ghannouchi in un mondo islamico in fermento
Quella di Ghannouchi, classe 1941, è la storia di uno studente modello che vive i suoi vent’anni spostandosi continuamente tra le più importanti università islamiche e la Sorbona a Parigi. Gli studi della sua giovinezza si intrecciano con la storia degli anni ’60. Non la storia da boom economico che si ricorda al di qua del Mediterraneo, ma quella della riscoperta identitario-religiosa del Nord Africa e del Medio Oriente. Il giovane Ghannouchi, durante il suo periodo di studi all’Università del Cairo, resta folgorato dalla dialettica Panaraba del Presidente egiziano Nasser. Si sposta in Siria e, all’Univeristà di Damasco, si avvicina al partito Ba’ th, che governa il Paese, e, soprattutto, ai Fratelli Musulmani. Arriva a Parigi: alla Sorbona è dottore in Filosofia dell’Educazione. Sempre in Francia, inizia a militare nella Tabligh-e Jama’a, corrente islamica fondamentalista, mossa dall’idea che il principale compito di ogni forza politico-religiosa di matrice islamica sia quello della “riconversione” dei milioni di fedeli musulmani troppo blandi nella propria professione di fede. Senza escludere il ricorso alla violenza, se necessario.
Nel frattempo la storia del mondo corre. In medio oriente da alcuni anni la nascita di un nuovo soggetto geopolitico sta comportando grandi tensioni tra tutti i Paesi islamici dell’area. Nel 1967 gli eserciti alleati di Egitto, Siria e Giordania invadono Israele in quella che sarà ricordata come la Guerra dei sei giorni. Tel Aviv, in meno di una settimana, trionfa contro ogni aspettativa. Nel mondo islamico si apre una stagione di grande riflessione sui motivi di tale umiliante tragedia. Ci si domanda quale corso dovranno prendere negli anni a venire le società nord africane e medio orientali. Società dimostratesi impreparate, non solo militarmente, a superare un ostacolo che sembrava essere di facile portata.
Il ritorno in Tunisia di Ghannouchi sotto i regimi di Bourghiba e Ali
La sconfitta islamica contro Israele radicalizza ancora di più Ghannouchi nelle sue convinzioni. Due anni dopo rientra in Tunisia. Iniziano gli anni dell’impegno politico vero e proprio. Insegna filosofia nei licei e fonda il Movimento della Tendenza Islamica, fortemente critico nei confronti del governo. Nell’84 viene arrestato e condannato a morte dal regime di Habib Bourguiba. La sua storia, a questo punto, sembra ormai terminata. All’improvviso però, una delle tante coincidenze che definiscono una narrazione. Pochi giorni prima dell’esecuzione della condanna a morte, il Primo Ministro Ben Ali depone il Presidente Bourguiba con un colpo di Stato. Segue una pioggia di amnistie per centinaia di detenuti politici. Tra questi c’è Ghannouchi, che subito fonda il Partito della Rinascita. Alle elezioni del 1989 il partito prende quasi il 15%, ma la dirigenza assicura che il numero di voti sia stato falsato al ribasso dal governo del neo Presidente Ben Ali. Nonostante il cambio di vertice e le “libere” elezioni, la Tunisia resta un’autocrazia. La tensione con Ben Ali aumenta e due anni dopo il Partito della Rinascita è accusato di aver promosso il rovesciamento violento delle istituzioni. Ghannouchi fugge a Londra, in un auto esilio che durerà vent’anni.
Durante i decenni di esilio smorza le posizioni più radicali del suo pensiero. Viene ripudiata la violenza come parte dello scontro politica ed è accantonato l’entusiasmo nei confronti della lotta terroristica contro Israele. Resta la visione islamica di stampo socialista ispirata dai tempi della Fratellanza Musulmana e l’avversione per il regime di Ben Ali. Restano i chiaro scuri nei confronti dei diritti umani e della libertà morale, elementi filtrati dalla profonda identità religiosa dell’uomo.
La Rivoluzione dei Gelsomini e la fine dell’esilio
Nel 2011 si apre in Tunisia una nuova stagione. Sono gli anni delle Primavere Arabe: il regime di Ben Ali viene travolto dalla Rivoluzione dei Gelsomini. Dopo vent’anni esatti dalla sua fuga, Ghannouchi rientra a Tunisi, dove è a capo del partito islamico Ennhadha, istituzionalizzazione del Movimento della Tendenza Islamica. Alle elezioni costituenti del 23 ottobre 2011 prende il 37% delle preferenze. È un trionfo. Nei dieci anni successivi il Partito perde molti consensi, faticando a restare agganciato all’evoluzione culturale del Paese. Ciononostante Ennhadha riesce comunque a ritagliarsi il ruolo di ago della bilancia nel parlamento tunisino. Una pragmatica politica di alleanze permette al partito islamico di essere sempre presente nelle maggioranze governative che fino al 2021 guidano la Tunisia.
Questa predisposizione particolarmente libertina di Ghannouchi al compromesso, fa scemare molto la fiducia della sua storica base elettorale. Riesce tuttavia a rimanere una figura di spicco e di rispettata esperienza all’interno della politica tunisina. Nel 2021, infatti, Ghannouchi è Presidente del Parlamento. Ma arriva luglio, e la narrazione prende una nuova piega. Ancora una volta, un colpo di Stato.
Le primavere arabe erano nate da uno spontaneo movimento popolare contro regimi considerati anacronistici ed oppressivi. In Tunisia, come negli altri Paesi che ne erano stati culla, erano molte e molto disparate le correnti ideologiche che si opponevano al potere costituito. A differenza che in molti altri Paesi, tuttavia, le varie forze che muovevano tale espressione popolare riescono, al termine delle proteste, a dare vita a governi di unità nazionale, mediando tra le proprie differenze. La Tunisia non cade nel caos libico o nell’autocrazia egiziana. Insieme a Ghannouchi e a molti altri, uno dei personaggi politici di spicco che sorge all’inizio di questa nuova stagione politica è Kais Saied.
La scalata di Kais Saied, un giurista diventato uomo forte
Saied è un noto giurista in Tunisia, molto apprezzato in questi anni per l’immagine di probità che lo distingue. Nel 2014 viene chiamato in qualità di consulente ad analizzare i lavori del progetto della nuova costituzione post Ben Ali. Qattro anni dopo si ritira dagli impegni lavorativi, ma mantiene la propria influenza nel dibattito pubblico, garantita dalla popolarità di cui gode nel Paese. Nel 2019 si candida da indipendente alle elezioni per la Presidenza della Repubblica. La sua campagna elettorale picchia molto sul tema della lotta alla corruzione, sullo slogan “legge e ordine”, sul contrasto a immigrazione e terrorismo. Il 18 ottobre 2019 è il nuovo Presidente con il 72% delle preferenze. Cinque giorni dopo giura nel Palazzo di Cartagine.
Nei mesi successivi Saied inizia a mettere in pratica quanto annunciato durante le elezioni. Si presenta come un conservatore moderato, avente come stella polare il mantenimento delle libertà civili e la crescita economica e sociale del Paese. L’economia tunisina, tuttavia, langue, i governi che si susseguono alla guida del Paese sono composti da ampie coalizioni e riescono a fare poco per la crescita. Arriva anche il Covid, ed un meccanismo che sembrava funzionante si inceppa, nel Palazzo e nelle strade.
Il 25 luglio 2021, dieci anni dopo la Rivoluzione dei Gelsomini, Saied scioglie il Parlamento e licenzia il Consiglio dei Ministri, Presidente compreso. Nei mesi successivi consolida il proprio potere: viene adottata una nuova costituzione, viene ampiamente ridimensionato il Parlamento (nei numeri e nelle funzioni), viene limitata l’indipendenza della magistratura. La Tunisia diventa una Repubblica definita “iper presidenziale”. L’anticamera di un’autocrazia.
La Tunisia oggi, un Paese in crisi ma consapevole della propria traiettoria
Il processo di “consolidamento del potere” non sembra essersi oggi ancora interrotto. La recente ondata di arresti, culminata con l’incarcerazione di Ghannouchi, ne è solo l’ultimo esempio. Oltre a questo, negli ultimi mesi Saied ha iniziato a promuovere una dialettica fortemente xenofoba nei confronti dei migranti sub sahariani, cosa che ha drasticamente peggiorato le condizioni di vita dei richiedenti asilo in Tunisia. Anche a Tunisi il concetto di sostituzione etnica inizia a prendere piede. Nello stesso tempo sembrano aumentare le aperture nei confronti di realtà geopolitiche non particolarmente favorevoli al tradizionale consorzio delle relazioni tunisine. Desta non poca preoccupazione nelle cancellerie occidentali, in particolare, la crescente simpatia per alcuni membri illustri del BRICS. Nello specifico, Pechino e Mosca.
Tuttavia Saied al momento non governa con il pugno di ferro: la maggioranza della popolazione tunisina lo appoggia e, seppur indebolito, il parlamento continua a svolgere le sue funzioni. Questo, però, potrebbe essere uno degli ultimi momenti utili per gli (ancora?) alleati occidentali per intervenire nella deriva del Paese, ed evitare che esca completamente dalla loro sfera di relazioni. Necessità, questa, in particolar modo per l’Italia.
I rapporti con l’Italia
L’Italia ha con la Tunisia relazioni millenarie. Nell’incontro e nello scontro tra le due civiltà si è formata buona parte dell’identità Mediterranea. Ancora alla fine dell’ottocento la Tunisia era, con gli Stati Uniti, una delle principali mete della nostra emigrazione. Oggi la Penisola è per il Paese nord africano il principale partner commerciale ed uno storico alleato geopolitico, al di là dei rispettivi governi al potere (da una parte e dall’altra del mare). Lo sgretolio che da più di tre anni sembra colpire l’equilibrio politico a Tunisi, non ha lasciato indifferente Roma, che soprattutto negli ultimi mesi sembra essere molto attiva per evitare il totale tracollo finanziario del Paese. E le sue eventuali conseguenze.
Nelle ultime settimane il Ministero degli Esteri italiano si è molto speso per lo sblocco di un fondo di 2 miliardi da parte dell’FMI a favore di Tunisi, garantendo sulla volontà di Saied di investire il tesoretto in riforme strutturali atte a combattere le crisi economica, alimentare ed idrica che attanagliano il Paese. Un’importante esposizione da parte di Roma, che contava sullo sblocco del fondo per legare più saldamente la Tunisia a sé. L’ottica della nostra diplomazia era quella di entrare in quella, sempre più stretta, finestra temporale nella quale Saied può ancora essere considerato un partner, perlomeno, rispettabile, e con la “carota” del fondo monetario riportarlo sul binario occidentale. Forse, però, è troppo tardi.
Il 6 aprile di quest’anno, davanti al mausoleo di quell’Habib Mourghiba il cui regime aveva condannato a morte Rached Ghannouchi, il Presidente Saied rivolge un discorso alla nazione:
Piuttosto che obbedire alle richieste dettate da forze straniere che causano solamente altro impoverimento, l’alternativa è contare solo su noi stessi
Le richieste in questione sono quelle di riforme in senso democratico e strutturale, le forze straniere, invece, il fondo monetario e l’Italia.
La posizione di Roma, la posizione di Tunisi
Il rifiuto da parte di Saied al fondo di 2 miliardi è un duro colpo per la nostra diplomazia, che teme di veder scivolare la Tunisia verso Paesi dichiaratamente ostili, come la già citata Russia, o la cui amicizia risulta sempre più in uno stato terminale, come la Turchia di Erdogan, da anni nostro competitor di primo piano nello scacchiere Mediterraneo.
Ad oggi il Governo Meloni sembra intenzionato a non abbandonare l’idea di un riavvicinamento a Tunisi, ne è testimonianza il silenzio di Palazzo Chigi dopo l’arresto di Ghannouchi. Per il momento, infatti, Saied non ha ancora rotto definitivamente i ponti con l’esecutivo italiano, conscio di poter appoggiare due pistole sul tavolo delle trattative con Roma: la possibilità di aprire un nuovo corridoio migratorio verso la Sicilia, e la consapevolezza che l’opposizione interna, su cui Roma potrebbe puntare se fosse necessaria una sostituzione ai vertici dello Stato, è sempre più sottile.