Come raccontare New York? ”Frank O’Hara buttava giù le sue poesie in fretta e furia, in strani momenti – nel suo ufficio al Moma, per strada, per pranzo e addirittura in una stanza gremita di gente – per riporle poi in scatole e cassetti e finire proprio per dimenticarsene.”
Così racconta il suo amico e poeta John Ashbery, che come O’Hara faceva parte della scuola newyorkese del primo dopoguerra. La modalità di scrittura di Frank ci lascia intendere che non fosse uno di quei poeti da stare lì le ore a limare il testo, cercare l’aggettivo migliore o correggersi. Questo perché la poesia era sì tutto ciò che per lui contava, ma l’esito finale restava sempre in un certo senso secondario. Ogni suo pezzo è un work-in-progress mai rivisto, fedele all’input creativo originario; poco importa che alcune parti siano incomplete. Anzi è il segno della loro caratteristica temporale, del loro voler rispecchiare il luogo stesso in cui sono state concepite. Così O’Hara raccontava la frenesia di una New York che non dorme mai.
Raccontare New York
Quale modo migliore per raccontare New York? La Grande Mela per Frank O’Hara è il luogo dove le leggi di spazio e tempo cambiano, dove ” uno può stare a due passi da un amico e non vederlo mai, tranne poi far delle miglia per andarlo a trovare in campagna’’.
Ed è in questo mondo caotico e distorto che nascono le sue poesie. Una New York fluttuante, che non sta mai ferma, che è un continuo ronzio sopra gli intrecci e le vite di coloro che la abitano. Insomma, una città dove l’esperienza che facciamo dello spazio e del tempo è assolutamente nuova rispetto a quella che faremmo altrove.
Alcune sue poesie sono state addirittura definite dalla critica come insoddisfacenti, ma forse è proprio questa la loro caratteristica peculiare. È infatti la loro incompletezza a far sì che sia necessario ‘’andare avanti’’. Perciò insistere tanto nella scrittura per O’Hara quanto per il pubblico con la lettura delle sue opere. Nella sua amata città, come nella poesia, non esistono punti fermi, ma solo la costrizione a un eterno andare.
Nemmeno gli errori che ogni tanto vengono fuori dai suoi versi riescono a disturbare. Perché sono proprio questi a fare la poesia, a creare un contesto lessicale e sintattico completamente nuovo, che ha l’arduo compito di raccontare New York.
Il legame con le arti
Frank O’Hara lavorò come curatore al MOMA (Museum Of Modern Art) per gran parte della sua vita. Qui ebbe modo di entrare in contatto con alcuni dei più grandi artisti dell’epoca, molti dei quali furono suoi amici e amanti. L’ambiente in cui operava quotidianamente era perciò dominato da figure come Larry Rivers, Joan Mitchell, la Freilicher e altri pittori che furono padroni della scena artistica statunitense tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso.
Un altro mondo che lo influenzò particolarmente fu quello della musica, che O’Hara definì più volte come il suo grande amore. Non solo apprezzava i compositori del passato – lo provano alcune elegie dedicate a Rachmaninov e Schonberg – ma anche esponenti dell’avanguardia contemporanea; egli stesso si laureò in musica ad Harvard. Soprattutto, raccontano molti suoi amici, era affascinato dall’improvvisazione.
Una diversa idea di poesia
Insomma la poesia di Frank O’Hara sembra tutto meno che letteratura. Si può dire perciò che fu molto più influenzato dalla musica e dalla pittura a lui contemporanea, che non da quello che succedeva allora nel mondo della poesia.
“Apparteneva a un tradizione moderna che è antiletteraria e antiartistica’’, scrive sempre Ashbery “richiamandosi ad Apollinaire e ai dadaisti, ai collages di Picasso e di Braques con quei deperibili ritagli di giornale, alla musique d’ameublement di Satie, che non era proprio fatta per essere ascoltata’’. Così che, per restituire il senso del tempo e del caos di cui fa esperienza a New York, O’Hara sfrutta il concetto di immagine appreso dalle arti visive, il senso di musicalità e di improvvisazione insegnatogli dai contemporanei e quel rumore costante che fece da sfondo a ogni sua avventura newyorkese.
Noemi Eva Maria Filoni