Raccontare la fine del mondo, una disposizione umana nel rendere il futuro più presente, o il presente più futuro. Un bisogno connaturato, una commistione di immaginazione e osservazione, che proietta scenari futuri ma attuali. Un modello predittivo in grado di figurarci paradigmi di comprensione e che perlopiù gioca su un’iperbolica e distopica rappresentazione del nostro presente. Questo è ciò sopra il quale “Raccontare la fine del mondo” di Marco Malvestio, edito da Nottetempo, si articola.
Raccontare la fine del mondo
Un libro di narrativa incastonato in una struttura saggistica, con l’intento di mostrare la potenzialità predittiva del racconto fantascientifico, mediante una ricca bibliografia letteraria e cinematografica accerchiata intorno a cinque temi principali.
Una narrazione avviata da Venezia, città simbolo, erede di “quell’armonia discordante di elementi su cui si fonda la civiltà umana”, piena e riuscita sintesi equilibrata di natura e cultura, – una narrazione – destinata, dopo una grossa e ricca digressione, a tornare su sé stessa. Riflesso di quel movimento immaginatore e distopicamente predittivo, rivolto al futuro ma agente nel presente. Un teletrasporto in avanti con un ritorno pragmatico al presente.
Una immaginazione che non è solo immaginazione
Raccontare la fine del mondo parla di questo: di come la fantascienza, nella sua declinazione distopica e post-apocalittica, sia in grado di immaginare un futuro possibile, e attraverso questo futuro di ripensare il presente.
Una immaginazione che presenta caratteri talvolta affidabili, dal momento che, cronologicamente, i tempi in cui viviamo oggi sono quelli nei quali “i classici della fantascienza ambientavano la loro immaginazione del futuro”. Pertanto, un riscontro di accuratezza immaginativa è possibile. Ed è di fatto ciò che in parte si propone di fare l’autore.
Passando dal nucleare, e dall’ansia e dallo stupore umano davanti al potenziale distruttivo che gli pertiene, si entra in un grande tema quanto mai attuale: quello delle pandemie. Proseguendo con un altro dei grandi temi attuali, cioè quello del cambiamento climatico, si approda a quello delle apocalissi vegetali e animali.
Fine del mondo o dell’umanità?
Temi e narrazioni che vedono coinvolto l’uomo, come inevitabilmente sia. In fondo, l’era in cui viviamo ha un nome preciso, quello dell’Antropocene. Un’era in cui le attività umane hanno un evidente impatto sull’ambiente, e nella quale la distinzione natura/cultura diventa sempre più sottile.
Un punto, questo, fondamentale. Perché la fine del mondo trova una non così chiara sovrapposizione con la fine dell’umanità. Ciò che la fantascienza sembra dunque prefigurarsi, nell’ambito della narrazione apocalittica, è un qualcosa di relativo al mondo antropocentrico. Non sarà dunque “che la fine del mondo è semplicemente la fine dell’umano?”
Se così fosse, “l’alternativa all’estinzione e alla catastrofe, in altre parole, può anche essere il superamento dell’umano”. Dove
Abbandonare l’umano significa abbandonare l’antropocentrico e riconoscere invece l’agentività delle altre forme di vita e di materia. Si può sopravvivere all’Antropocene, forse, riconfigurando il nostro posto nel mondo, ripensando cosa significa essere umani, e ricomponendo la frattura concettuale tra umano e animale, tra organico e inorganico.