Come si vive e cosa s’impara quando si decide che, da un certo momento in poi, la propria vita coinciderà con il raccontare il viaggio? Ne abbiamo parlato con Gianluca Gotto, che ha condiviso con noi la sua storia e un pizzico di saggezza arrivata da molto lontano – e da vicinissimo a noi.
In un articolo uscito circa un mese fa vi abbiamo raccontato l’intervento di Gianluca Gotto, scrittore e travel blogger, alla conferenza TEDx 2019 di Rovigo. In particolare, abbiamo provato a presentare l’idea di felicità lì proposta, tra il concetto di ikigai e quello di responsabilità verso sé stessi. Siamo riusciti, successivamente, a contattare Gianluca, che attualmente è in Italia per presentare il suo ultimo libro. Gli abbiamo chiesto di riflettere con noi sul tema del raccontare il viaggio. Quello che lo ha condotto a realizzare il suo sogno, anzitutto. Ma anche quello delle persone che seguono il suo lavoro e di quelle che ha incontrato lungo il cammino.
Nell’intervento alla conferenza TEDx dello scorso 7 ottobre illustravi il concetto di ikigai, spiegando come il tuo connetta viaggio e scrittura. Com’è nata l’idea che il raccontare il viaggio potesse diventare il tuo lavoro e quale percorso ti ha portato a realizzarla?
L’idea è venuta in un momento di difficoltà. Poco prima, avevo trovato in Vancouver una città da chiamare “casa”. Mi ero stabilito in Canada con l’idea di fermarmi a lungo, se non per sempre. Poi, un giorno, una telefonata dall’Italia ha cambiato tutto. Sono stato costretto a tornare in fretta e a rinunciare al mio sogno canadese. È stato a quel punto della mia vita che ho deciso di trasformare quell’evento sfortunato in un’opportunità. Dovevo ripartire da zero, con la mia vita e dal punto di vista professionale. Ho pensato potesse essere l’occasione giusta per fare della mia passione per la scrittura un lavoro e di quella per il viaggio la mia vita.
Fino a quel momento avevo fatto di tutto: panettiere, cameriere, operaio, commesso, pizzaiolo, giocatore di poker… Però, come dicevo nel mio discorso al TEDx, per capire quale sia il proprio ikigai è importante ripensare a cosa si sognava da ragazzini. Io sognavo di scrivere ed esplorare il mondo. E allora mi sono detto: proviamoci. Ho iniziato a scrivere articoli per siti web e, coi primi guadagni, ho comprato un biglietto di sola andata per Bangkok. All’inizio ero un freelance, come tanti. Solo che il mio ufficio era una stanza d’albergo. La hall di un aeroporto. Una caffetteria da qualche parte in Asia. O qualsiasi luogo del mondo con una connessione a internet. Successivamente ho aperto Mangia Vivi Viaggia con la mia compagna Claudia e oggi mi occupo principalmente del blog e scrivo libri.
Fondamentali, tanto per il blog quanto per i tuoi libri, sono gli interlocutori cui essi si rivolgono. Quindi, vorrei chiederti: cosa speri che il raccontare il viaggio possa portare agli altri?
Fin dall’apertura del blog, il mio obiettivo era quello di condividere un messaggio ben preciso: le alternative esistono. Mi riferisco ad alternative a uno stile di vita dato per scontato. Alternative alla sacralità del posto fisso. All’arrivismo che ci atomizza. Al miscuglio dilagante di cinismo e pessimismo, al consumismo indiscriminato. E al materialismo come unica forma di felicità possibile. Il mio percorso mi ha portato a capire che l’idea di realizzazione personale che ci viene venduta quotidianamente è una grande fregatura. Il suo effetto è di renderci tutti uguali, ugualmente insoddisfatti. Se avessi seguito le ‘regole’ per una vita ‘giusta’ non avrei mai assaporato la felicità che ho trovato seguendo percorsi differenti.
Certo, non è stato facile. Ho dovuto affrontare ostacoli di ogni tipo, ma ho trovato molto più di quanto potessi anche solo immaginare all’inizio di questo viaggio. Quindi, volevo trasmettere questo messaggio: nessuno di noi è condannato una vita che odia. Cambiare è sempre possibile: dipende da noi. Volevo comunicare il valore del viaggiare: nel mondo e nella vita. E volevo trasmettere tutto ciò con grande positività e amore per la vita. È incredibile la negatività che caratterizza i nostri tempi paradossalmente così pieni di opportunità e benessere.
Poni una forte enfasi sul bisogno di raccontare il viaggio, di condividere ciò che hai scoperto percorrendo il mondo. Secondo te, quindi, le storie possono cambiare le vite delle persone?
Assolutamente sì. Da sempre e in ogni forma. Per me, soprattutto attraverso i libri. In particolare, ci sono due romanzi che mi hanno aiutato molto.
Il primo è Chiedi alla polvere di John Fante. Il percorso di vita di Arturo Bandini, il protagonista, mi ha colpito molto. È un ragazzo che scappa dalla campagna americana per cercare di diventare uno scrittore a Los Angeles. Mi rivedevo in lui, sognatore squattrinato che pur di farcela è disposto a nutrirsi di sole arance e sopportare l’acidità di stomaco. Come Arturo, mi è capitato di pensare che, se l’unica alternativa alla vita difficile che stavo facendo era smettere di sognare, avrei continuato a lottare. Questo libro mi ha aiutato a mantenere viva la fiamma del mio sognare.
Il secondo libro è Factotum di Charles Bukowski. È un racconto di vita crudo, brutale e osceno, eppure in quelle parole io ci ho sempre visto anche tanta libertà. E un amore per la vita che molti non ritrovano nel testo, mentre per me è palese. Quel libro mi ha insegnato ad essere me stesso, che è una delle forme di libertà più forti che ci siano.
Come racconti nel tuo primo libro, questo te stesso ha trovato espressione spesso nei racconti che in viaggio ti capitava di scambiare con altri viaggiatori. Come mai viaggiando è più facile raccontarsi gli uni gli altri la propria storia? E cosa cambia in noi quando lo facciamo?
È più facile perché in viaggio cadono quei pregiudizi e quelle maschere che caratterizzano la vita quotidiana in molte delle nostre città. A casa le circostanze ci portano spesso ad andare di fretta. A essere in competizione. Ad avere l’impressione di non essere e fare mai abbastanza. Il viaggio ci apre all’essere semplicemente noi stessi e in questa esperienza giudichiamo meno facilmente gli altri. Ci concentriamo sulla vita, riflettendo insieme su ciò che conta davvero.
Vorrei porti un’ultima domanda. Poiché raccontare il viaggio è il tuo lavoro, cosa emerge dal confronto con le pratiche narrative non occidentali? Ovvero: c’è qualcosa che potremmo e dovremmo imparare, secondo te, dalle narrazioni che caratterizzano altre culture?
Non sono un esperto in tal senso, ma posso dire di amare il Buddhismo anche per il modo di narrare. Esso raggiunge le persone attraverso parabole semplici ma universali perché in grado di trasmettere messaggi che toccano corde profondissime dell’anima. Mi sembra che l’Occidente sia ossessionato dalla complessità, mentre spesso è nella semplicità che si trova qualcosa di vero. Personalmente, mi ritrovo molto nelle parole del saggio indiano Sadhguru, che volta ha detto:
L’intelligenza non sta nel complicare una cosa semplice; l’intelligenza sta nel semplificare una cosa complessa.
Difficile, almeno per chi scrive, non ritrovare nelle parole del saggio indiano quelle di Albert Einstein, un saggio nostrano che ammoniva:
se non lo sai spiegare in modo semplice, non l’hai capito abbastanza bene.
Ma forse è questo il senso più profondo del viaggiare – e del raccontare il viaggio che, facendolo, compiamo dentro noi stessi. Scoprire che ogni luogo del mondo ha visto nascere saggi e uomini per bene. E che ogni luogo del mondo, dunque, per noi può essere casa.
Valeria Meazza