Il 26 dicembre, a Casalbordino in provincia di Chieti, una donna di 72 anni, Maria Rita Conese, è stata uccisa dal marito, Angelo Bernardone. La notizia, riportata su tutti i giornali, lascia quasi intendere che la malattia della donna possa in qualche modo giustificare il femminicidio.
Il femminicidio raccontato dai media
La vicenda è questa: nella giornata di ieri, una donna di 72 anni, Maria Rita Conese, è stata uccisa dal marito 74enne, Angelo Bernardone, che l’ha gettata nel fiume Osento. Dopo aver commesso il reato, l’uomo si è costituito ed è stato arrestato con l’accusa di omicidio volontario.
Come hanno raccontato i media la vicenda? Più o meno così: un uomo di 74 anni, metalmeccanico in pensione, si è costituito dopo aver gettato nel fiume Osento la moglie di 72 anni, malata di Alzheimer. Nonostante la grave malattia della donna, raccontano i giornali, nessuno si aspettava che potesse succedere una tragedia simile. Era una famiglia tranquilla e Angelo Bernardone era considerato da tutti una brava persona. Probabilmente, si legge, il pensionato ha commesso il gesto per disperazione, perché non ce la faceva più a gestire la malattia della moglie.
Cosa c’è di sbagliato in questa narrazione? Spoiler: tutto
Come spesso accade quando si dà la notizia di un femminicidio, anche in questo caso gli errori commessi – più o meno consapevolmente – dalle testate giornalistiche sono parecchi. Questi rischiano di fornire narrazioni che conducono inevitabilmente a conclusioni sbagliate. Ad esempio credere che il carnefice abbia avuto delle buone ragioni per commettere il femminicidio, che il suo gesto possa essere giustificato.
Vediamo nel dettaglio quali sono questi errori.
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Assumere il punto di vista di chi commette il femminicidio
Ogniqualvolta viene commesso un femminicidio, i titoli e gli articoli di giornale raccontano la vicenda dal punto di vista del carnefice, mai della vittima. In questo caso, la notizia riportata su tutti i media è “uomo uccide la moglie gettandola in un fiume” e non “donna uccisa dal marito”.
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Ricerca ossessiva del movente
Nel caso specifico il movente sarebbe la “malattia irreversibile” di Maria Rita Conese, con la quale il marito non riusciva più a convivere. Attraverso tale narrazione, sembra quasi che la vera vittima di questa situazione sia proprio Angelo Bernardone che, non riuscendo più a gestire la malattia della moglie, ha deciso di ucciderla.
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Empatizzare con il femminicida
Questo punto è strettamente legato ai primi due. Raccontando la vicenda dal punto di vista di chi commette il femminicidio e andando alla ricerca del movente a tutti i costi, è molto più semplice empatizzare con il femminicida, giustificando l’atto.
Sebbene a morire sia stata Maria Rita Conese, leggendo gli articoli di giornale non si può fare a meno di pensare che l’uomo che l’ha uccisa stesse vivendo un dramma e fosse al limite della sopportazione, tanto da ucciderla.
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Definire il femminicida in un modo particolare
Su tutti i giornali Angelo Bernardone è stato presentato come “il pensionato”. Come se il fatto di essere un uomo anziano possa rappresentare un’attenuante.
Su questo punto sono molti gli esempi che si possono fare. Ciascuno di questi fornisce un’interpretazione chiara e precisa della vicenda che viene raccontata.
Ad esempio, quando a compiere il femminicidio è un uomo di nazionalità estera, viene usato il termine “immigrato” per sottolineare l’eccezionalità dell’accaduto. Come se un italiano non possa commettere un femminicidio. O, ancora, quando il femminicida è un uomo disoccupato, questo termine viene evidenziato più volte per favorire l’empatia nei confronti di quest’ultimo. In tutti questi casi, l’attenzione si sposta dalla vittima al carnefice.
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Raccontare le opinioni di chi conosce il femminicida
Quando i giornali raccontano un femminicidio, nella maggior parte dei casi, chiamano in causa amici, parenti e vicini di casa, i quali esprimono la propria opinione in merito alla presunta bontà del femminicida o alla felicità della coppia.
Nel caso in questione ad essere intervistato è stato il sindaco di Casalbordino, Filippo Marinucci, il quale ha commentato in questo modo la notizia:
«Forse un gesto disperato, di impeto: in paese Bernardone era conosciuto come una brava persona. Siamo davvero colpiti, nulla avrebbe fatto presagire questa tragedia»
Queste parole ci conducono in fretta al prossimo punto:
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Il raptus
Nella maggior parte dei casi, nel racconto di un femminicidio i giornali usano la parola “raptus”, associando quanto accaduto ad una patologia psichiatrica. In questo modo lasciano intendere che il femminicida abbia commesso il crimine a causa di un’alterazione dello stato emotivo che gli ha fatto perdere il controllo delle sue azioni.
Come non si racconta il femminicidio
Questi sono solo alcuni degli errori che le varie testate giornalistiche commettono nel raccontare i femminicidi. In molti casi, infatti, a tutti questi punti se ne aggiungono altri. Uno dei più gravi è la romanticizzazione della violenza. Attraverso tale narrazione, i media giustificano la violenza e il femminicidio con l’amore. “L’ha uccisa perché l’amava troppo”, “Non voleva lasciarla andare”. Collegano un atto così grave e violento a qualcosa di puro, di bello, come l’amore.
Ma il femminicidio nulla ha a che fare con l’amore. Il femminicidio è un reato e in quanto tale va punito, non giustificato.
Ricorrere a narrazioni e interpretazioni che distorcono la realtà diffonde la convinzione che chi commette un femminicidio ha le sue buone ragioni per farlo. In alcuni casi la vittima non è altro che un accessorio della narrazione. In altri, la vittima diventa addirittura colpevole. “Sarà stata esasperante”, direbbe qualcuno.
Queste narrazioni sono più frequenti di quanto si creda e contribuiscono a diffondere stereotipi e alimentare una cultura misogina e sessista.
Se accorgersene è difficile, rifiutarle è doveroso.
Federica Fiorello