“Passato il ponte a destra tra i muriccioli e il vicolo che porta alle case marce dove vive Nabil, e quindi la pasticceria e la Casa del Popolo dove affacciato sul palazzo dell’ufficio postale in quarta elementare aspettavo mio padre, il vecchio ufficio trasformato in una macelleria che i paesani chiamano la boutique della carne nell’orgoglio di vedere i perugini arrivare per pagare dieci euro due fettine di filetto come arrivavano fino agli anni Cinquanta per fare il bagno nel Tevere e morire affogati come idioti e come perugini e come gente di città.”
Comincia così “Qui dovevo stare”, l’ultimo romanzo di Giovanni Dozzini edito da Fandango Libri
Una descrizione della città che lo ospita, Perugia, per aprire al lettore le porte della realtà disincantata di Luca Bregolisse, detto il Brego.
Figlio di un comunista che lo portava sempre con sé alle Feste dell’Unità, Bregolisse fa l’imbianchino e ha al suo servizio Nabil. Un dipendente che, a causa dei problemi con il figlio, si assenta spesso ed inavvertitamente dalle giornate di lavoro. Quando non lavora, Bregolisse passa il suo tempo in un bar gestito dai cinesi, dove puntualmente incontra il suo migliore amico, detto il Tordo. Tra il tempo passato con il Tordo a bere caffè corretto e quello passato a lavorare, Bregolisse torna a casa solo ad ora di pranzo e cena. Qui lo aspettano la moglie, la sua Pam–Pamela, e sua figlia Caterina di quattro anni.
Il futuro era nero e il futuro era in bilico, non volevo oppressioni, l’amore è una catena e ti devi rassegnare, lei diceva così nelle notti calde in cui la riportavo a casa in macchina e non la guardavo perché sapevo che nel buio stava piangendo
e che era pronta a rinfacciarmi per la milionesima volta di non essere dolce come si sarebbe aspettata e di non essere comprensivo o premuroso, mi rinfacciava di non essere l’uomo di cui avrebbe voluto innamorarsi se solo avesse potuto scegliere chi, e quando, e dove.
Il protagonista di “Qui dovevo stare” condivide con sua moglie una quotidianità alimentata dall’abitudine più che dall’amore. Una quotidianità che è rifugio ed al tempo stesso oppressione per i suoi quarant’anni di esistenza. Un’esistenza che non si è rivelata altro per lui che causa di generale malcontento.
Luca Bregolisse è il portavoce di una generazione disillusa. Ed i suoi pensieri sono ritratto di quella rabbia e frustrazione che appartengono a coloro che hanno smesso di credere
La frustrazione di Luca Bregolisse per una vita inappagante sfocia nell’insofferenza e nella perdita di sensibilità. L’insofferenza verso un lavoro che non lo gratifica quanto vorrebbe. Così come l’insofferenza per una famiglia per la quale prova sentimenti contrastanti. L’assenza di sensibilità verso gli altri esseri umani. A cavalcare le onde di quel senso di repulsione, la politica della destra intollerante. Valvola di sfogo di tutti i Luca Bregolisse delle province italiane, che hanno potuto trasformare la frustrazione repressa per le proprie vite in un’intolleranza giustificata dalla retorica del “Capobranco”.
Se c’è una cosa che si deve riconoscere alla destra è l’aver accolto gli avvilimenti personali dei suoi elettori convertendoli in forme di ripugnanza collettiva.
Incarnando le idiosincrasie delle strutture familiari e sociali, la destra ha acquistato consensi facendo leva sulla disperazione del popolo. Lo stesso sentimento che provava chi, una volta, avrebbe votato il Partito Comunista.
Con un provocatorio ribaltamento di prospettiva, “Qui dovevo stare” appare come un vero e proprio flusso di coscienza. Uno stream of consciousness, quello del protagonista Luca Bregolisse, da leggere tutto d’un fiato.
E mentre lo leggiamo, possiamo dissentire dal linguaggio di quel “selvaggio con le mani sporche di malva”. E possiamo non apprezzare i modi, talvolta rozzi, di pensare di un uomo dalla vita mediocre. Ma non possiamo restare indifferenti.
La più grande peculiarità di “Qui dovevo stare” è la scelta stilistica dell’autore
Una scelta che si rivela efficace per permetterci di entrare nella psicologia del personaggio.
La narrazione in prima persona e all’indicativo presente non dà alcuna opzione al lettore se non quella di guardare il mondo dagli occhi del Bregolisse. Come se la sua vita fosse un film girato esclusivamente in soggettiva, dal punto di vista del protagonista.
Osservando la storia dai suoi occhi, è come se il lettore riuscisse a leggere direttamente ciò che la mente del protagonista registra. Nel momento esatto in cui gli avvenimenti accadono intorno a lui, senza filtri stilistici o abbellimenti narrativi.
Perché la vita che scorre e prevende forma davanti agli occhi del protagonista è reale. E l’effetto suscitato dalla scrittura di Dozzini non sarebbe lo stesso, se ci fossero abbellimenti a descrivere ciò che la mente di Bregolisse naturalmente processa.
E’ per questo che lo scrittore non lascia trapelare alcun giudizio. Non s’ingegna in tentativi moralistici per giustificare o condannare la condotta di Bregolisse e dei personaggi che lo circondano. Sono le vicende che accadono intorno a loro, la più grande condanna morale al loro comportamento.
Carola Varano