Di Isabella Rosa Pivot
Sei indumenti creati per gli uomini, ora simbolo di femminilità
Sono tantissimi gli elementi e gli oggetti che oggi attribuiamo alla femminilità, il complesso dei caratteri che, secondo la società, definirebbero l’aspetto e il comportamento proprio della donna.
Eppure, originariamente molti di questi erano stati creati per gli uomini, a testimonianza di quanto il “genere sociale” sia una costruzione perlopiù economica, che realmente identificativa.
Spesso i produttori hanno semplicemente cambiato, infatti, il loro target di mercato unicamente per una questione di business, portando ad una sedimentazione di stereotipi nel corso degli anni e dei decenni.
Qui di seguito, andrò ad elencarvi sei esempi pratici di indumenti/elementi erroneamente connessi unicamente alla femminilità e all’esser donna.
I tacchi
Non sono in molti a saperlo, ma i tacchi sono stati inizialmente creati per gli uomini.
Furono inventati per i soldati persiani nel X secolo: il tallone permetteva loro di bloccare il piede nelle staffe, mentre cavalcavano i cavalli. Arrivarono in Europa nel XVII secolo, diventando un elemento chiave per gli uomini aristocratici dell’epoca, poiché permettevano loro di apparire più alti.
Solo in seguito cominciarono ad esser usati anche dalle donne, che li amavano perché facevano sembrare i loro piedi più piccoli.
I tacchi diventarono elemento ad uso esclusivo femminile solo XVIII secolo, quando la moda cambiò il look maschile.
I collant
Inizialmente ideati per gli uomini, i collant sono divenuti un indumento prettamente femminile solo nel XIX secolo. Il primissimo paio di collant fu di colore bianco e vide la luce nel IX secolo, per essere indossato dagli uomini nobili dell’epoca. Con gli anni spuntarono quelli colorati, ma per le classi sociali più povere rimasero sempre neri.
Gli skinny jeans
Gli skinny jeans risalgono al 1873. Il primo paio di jeans fu creato da Jacob Davis, un sarto che creò un paio di pantaloni in tessuto denim che potesse resistere ai lavori pesanti. Davis, infatti, creò i celebri pantaloni aderenti per gli uomini che lavoravano in miniera.
Egli iniziò poi a collaborare con Levi, che gli procurava la stoffa. Quest’ultimo fondò inseguito la Levi Strauss e Co ed iniziò a produrre in serie i pantaloni jeans. Fino al 1930, i jeans erano considerati indumenti maschili, poi l’azienda creò il modello 701 destinato ad un pubblico femminile.
I crop tops
Le magliette corte che lasciano scoperto il ventre, tanto di moda anche ai giorni nostri, sono nate per rispondere alle esigenze esibizionistiche dei Bodybuilders negli anni ‘70.
Diventarono un capo femminile solo inseguito al successo della cantante Madonna, che ne faceva largo uso e grazie al film Flashdance.
A metà degli anni 90, top aderenti corti a maniche lunghe o a dolce vita erano il must, fino a che in alcune scuole venne posto il divieto di indossare questo indumento secondo il codice di abbigliamento.
La gonna
La gonna, considerata il capo femminile per eccellenza, ha configurato in passato la tipologia d’abbigliamento principale per ambedue i sessi. In epoca egizia erano gli uomini ad indossare gonnellini più o meno corti; nell’Antico Regno, dall’ombelico in giù si coprivano con una breve gonna di tela di lino bianca, detta pano o pagne.
Greci e Romani vestivano invece bisex. La gonna, capo base del guardaroba della storia più remota, fu
sostituita successivamente dalla tunica, l’ampio vestito di lunghezza e larghezza variabili che vediamo indossare, fino all’Alto Medioevo, da uomini e donne. Anche per tutto il Medioevo il nome di gonnella si riferisce ad un indumento intero sia maschile che femminile. Solo a partire dal Rinascimento si ebbero dei mutamenti, rendendo più marcate le differenze di vestiario tra uomo e donna ed eliminando gradualmente la gonna dal guardaroba maschile.
Il colore rosa
Al giorno d’oggi, viene collegato alle bambine e ritenuto un colore prettamente femminile.
Eppure, il rosa è stato a lungo considerato un colore maschile, grazie alla sua vicinanza con il rosso del sangue e delle battaglie, lo stesso delle camicie e delle divise, mentre alle femmine era assegnato il celeste virginale del velo della Madonna.
La moda del rosa arrivò dalla Francia. In Piccole donne (1880), Amy regala due fiocchetti ai figli gemelli della sorella: uno azzurro per il maschio e uno rosa per la femmina, trattandola appunto come un’usanza francese. Ma ancora agli inizi del Novecento la faccenda è confusa: seconda una rivista specializzata in moda per bambini, Earnshaw’s Infants’ Department, il blu è delicato e va bene per le femmine mentre il rosa è un colore così virile che risulta perfetto per i calzoncini dei maschi.
A quanto pare, l’assegnazione alla quale siamo ormai abituati è assai recente e risale agli anni Cinquanta, quando viene messo sul mercato il primo modello di Barbie. Se, infatti, fino al XVIII secolo era ancora molto spesso un colore maschile, a partire dalla diffusione di questa bambola, il rosa diventa decisamente femminile.
Roba da donne? Non proprio, le società seguono l’andamento economico, molto più di quello psicologico.
Le classificazioni attuali ci indicano in continuazione come dobbiamo comportarci e vestirci, influenzando anche il nostro pensiero, e spesso non ci rendiamo conto di quanto ciò non abbia alcun senso.
I colori non hanno sesso, i vestiti e gli sport non hanno sesso. Perché limitare il nostro essere e la nostra originalità a dei dogmi puramente selezionati in base al business del momento?
Sembrano solo “piccoli” ed innocui stereotipi, ma è anche da questi che deriva la società sessista in cui viviamo e che limita ogni giorno la nostra libertà di pensiero e carattere.
Un’analisi attenta ed equilibrata della storia del costume: ben evidenziato che, reggiseni a parte, l’abbigliamento non abbia destinazioni di sesso, nonché il retrostante economico. Infatti, avere due linee di capi, una destinata al maschile e l’altra al femminile, facendo credere ai clienti che siano diverse e non intercambiabili, aumenta il margine di profitto dei produttori.
Grazie Roberto