Il linguaggio è uno strumento di conoscenza molto efficace del modo di pensare di una persona o di un intero popolo. È una sorta di impalcatura ai processi della mente.
Quello che abbiamo sotto gli occhi, ma di cui non siamo mai troppo consapevoli, è il fatto che è proprio come partoriamo con la lingua un pensiero a costituire il modo in cui lo viviamo. Provare ad etichettare diversamente quello che ci accade, ci apre a nuovi punti di vista, un po’ come osservare un oggetto da diverse angolature. Per fare un esempio fra tanti, cito Eckhart Tolle, maestro spirituale contemporaneo, che in una sua conferenza parla di come un tradimento si esprime e si percepisce convenzionalmente con la pesantezza di un “Mi ha tradito!”, ma può essere alleggerito provando a formulare il concetto in maniera diversa.
Con un velo di ironia, spiega il tradimento come una manifestazione del comportamento di qualcuno che è sceso ad un livello più basso di coscienza, a dispetto del grado più elevato in cui si trovava prima.
In quest’ottica, improvvisamente il tradimento non c’è più. Il peggio lo facciamo da soli, lasciandoci trascinare nel film della mente che ci affibbia il ruolo di “colui che è stato tradito”, il quale è reale solo come convenzione linguistica, ma non incarna la verità, dove lo squilibrio e la sofferenza è più nel traditore che nel tradito.
È importante saper riformulare la storia per disidentificarsi da un pensiero.
Uno dei bug del nostro linguaggio che, secondo me, è causa di un grave e sempre più diffuso problema di identificazione, è l’uso erroneamente interscambiabile di “essere” e “fare”. Una piccola confusione che fa un grande danno. Usiamo questi due verbi come sfumature quasi impercettibili di uno stesso colore, quando in realtà sono distanti come il bianco e il nero.
Dire “io sono Marco e sono un impiegato” è come dire “Io sono Marco e faccio l’impiegato”? .
Il lavoro che facciamo non è quello che siamo. Oggi più che mai, in questo mondo di social, siamo sempre più inclini ad identificarci con la maschera sociale che indossiamo, piuttosto che con il puro spirito che siamo.
La prova è nel vostro profilo Facebook, dove a sinistra, trovate il vostro elenco di impieghi, idem in Twitter, Instagram e così via. Almeno, nei documenti ufficiali vengono prima le caratteristiche fisiche.
Il lavoro è diventato sinonimo di vita, per cui sgomitiamo a sangue su una lunga scala mobile con una fretta eterna, bramando un treno alimentato ad arrivismo che partirà quando la sua pancia a vagoni sarà piena di spiriti travestiti da contratti…dritti alla morte spirituale!
La formula (io sono) + (figura lavorativa) è una spietata autoconvinzione con cui l’identità mentale soppianta quella spirituale.
Siamo più preoccupati della cella esagonale che occupiamo nell’alveare sociale, a produrre bile più che miele.
Il malcontento più diffuso è quello connesso al lavoro; non a caso i suicidi per crisi economica e derivati sono aumentati notevolmente negli ultimi anni, con un picco massimo nel 2014.
Il mondo pullula di gente che manifesta tra ira, stress e depressione, l’insoddisfazione dovuta alla propria situazione sociale. Ma noi siamo prima di tutto persone, anime, gocce di energia che piovono da un oceano energetico, per poi ritornare ad esso. Che si faccia lo spazzino o l’avvocato, fondamentalmente, è uguale. È la bellezza dell’essenziale che bisogna riscoprire.
Altri ospiti, sempre invitati da questa malattia identificativa, sono i cari pregiudizi che, spettatori tranquilli, classificano X come l’inetto e Y come l’intelligente. Sulla base di cosa? Del lavoro che fanno. Eppure sono infiniti gli esemplari che hanno curriculum da invidia ma che poi non sanno maneggiare uno scolapasta (che permettetemi di usare qui come emblema di adattamento alla vita), o sono, molto più semplicemente, personificazioni varie della meschinità.
Riformuliamoci. Cerchiamo di disintossicarci da questa malattia sociale. Iniziamo da piccoli, ma importanti accorgimenti, come le parole che usiamo, che dovrebbero essere sempre pesate come oro.
Chiudo vestita da fantasma di Dario, ne “I Persiani” di Eschilo: “Vi saluto, vecchi Fedeli. Anche avvolti d’angoscia, offritevi quel poco di gioia, ogni giorno che passa. Non conterà più l’oro, tra i morti.”
Federica Isidori